La nostra salute dipende anche dai vestiti che indossiamo. Ecco tutte le insidie che possono nascondersi negli indumenti (e come evitarle).
In Italia, ma anche in Europa e nel resto del mondo, le allergie alle sostanze chimiche costituiscono un problema sempre più diffuso e preoccupante. Nel mirino non ci sono solo gli alimenti, certi materiali e l’aria stessa che respiriamo, ma anche i vestiti nel nostro guardaroba. Vediamo insieme perché.
Perché camice, t-shirt, magliette e pantaloni possono mettere a repentaglio la nostra salute? In poche parole, spesso gli indumenti più “insospettabili” nascondono sostanze tossiche che, stando a contatto per periodi prolungati con la nostra pelle, causano dermatiti, eczemi e altre patologie dell’epidermide. Come possiamo prevenire i rischi più gravi?
Tutte le reazioni allergiche scatenate dai vestiti
Come spiega l’Associazione Tessile e Salute, i principali rischi per l’ambiente e la salute del consumatore a contatto con tessuti e calzature sono legati alle sostanze chimiche utilizzate nei processi produttivi e finalizzate alla lavorazione, alla colorazione e alla funzionalizzazione dei materiali. E oggi non c’è praticamente indumento che possa dirsi immune da tali rischi.
Le reazioni allergiche scatenate dai vestiti sono fondamentalmente di due tipi. Possono essere scatenate dal tipo di tessuto o dagli additivi chimici utilizzati nella sua lavorazione. Prendiamo le fibre tessili: possono essere naturali (seta, lana, cotone o lino, per esempio), sintetiche (vedi nylon, poliestere, fibra di vetro, elastico 6 ed elastan) o anche una combinazione delle due tipologie. È evidente che, a seconda dei casi, la nostra pelle risponderà in modo diverso.
Lo studio Ue
Ma il discorso è ancor più complesso. Secondo uno studio commissionato dall’UE, nella maggior parte dei casi le reazioni allergiche sono dovute ai coloranti presenti nei vestiti: impregnando la struttura del tessuto, entrano facilmente a contatto, per strofinio, con l’epidermide. Le resine di formaldeide utilizzate sui tessuti sono un’altra sostanza tossica capace di innescare una reazione allergica, e lo stesso vale per altre sostanze chimiche utilizzate nella lavorazione del tessuto, come oli, pesticidi e grassi che, combinate con il sudore, possono dare origine a prurito, lesioni eritematose e dermatiti da contatto.
Un capitolo a parte va speso per i Perfluorurati (PFC), che vengono abitualmente impiegati nella realizzazione di prodotti sportivi e outdoor, essendo impermeabili all’acqua e all’olio. Il loro utilizzo è spesso associato a gravi conseguenze sulla salute, come tumori ai reni e ai testicoli. Oltre tutto, una volta rilasciate nell’ambiente queste sostanze si degradano molto lentamente e con difficoltà, per cui la contaminazione è quasi irreversibile. Ed è così che i perfluorurati entrano nella catena alimentare, facendo aumentare il rischio di contrarre patologie tumorali.
Ma non va sottovalutata neppure l’incidenza dei residui di saponi, detersivi e additivi che rimangono attaccati ai tessuti dopo il lavaggio. La cosa migliore sarebbe utilizzare detersivi delicati ed ecologici, senza l’aggiunta di sbiancanti o di igienizzanti, sostanze che irritano facilmente le pelli delicate, ma non sempre ciò è possibile, e per diverse ragioni.
Cosa dice la legge
L’Unione Europea ha emanato una direttiva molto rigida per quanto riguarda l’etichettatura e il controllo dei prodotti, abbigliamento compreso. Con particolare riferimento all’industria tessile, il Regolamento REACH, in vigore dal 2007, elenca le sostanze e i composti chimici che possono essere utilizzati nei processi industriali in Europa, illustrandone anche le modalità.
Sono tenuti a rispettarlo sia le imprese chimiche, sia i produttori tessili, i conciatori e i calzaturieri che utilizzano i coloranti, gli ausiliari, i collanti e tutto ciò che serve a trasformare una materia prima in un prodotto finito commercializzabile. Il problema riguarda i capi di abbigliamento che vengono prodotti all’estero e importati in Italia e in Europa, e che dunque non sono soggetti alle stesse regole (e che fanno la parte del leone nel mercato dell’abbigliamento).
Per assurdo che possa sembrare, una sostanza vietata in Europa ma non in India, Cina o Indonesia può essere benissimo commercializzata in Italia. E, come forse già sapete, l’etichetta Made in Italy offre ben poche garanzie in questo senso: certifica solamente che almeno uno dei processi produttivi è avvenuto in Italia (magari il confezionamento e basta…).
Per i consumatori più attenti e consapevoli c’è comunque un’ancora di salvataggio. Per proteggersi dalle sostanze tossiche presenti nei capi d’abbigliamento, per esempio, possono comprare abiti certificati prodotti da aziende tessili locali lungo l’intera filiera, oppure di seconda mano. Questi ultimi hanno infatti il vantaggio di aver già subito svariati lavaggi, e quindi hanno perso una certa quantità di sostanze tossiche dannose per la nostra salute.