Qual è il modo migliore di rapportarsi ai propri figli per favorire la loro crescita nella maniera più armoniosa possibile?
Gli esperti ci danno dei suggerimenti preziosi per capire qual è il vero ruolo del genitore e il significato della nostra presenza nella vita dei figli. E soprattutto per comprendere quale stile adottare.
Mai sentito parlare di “peaceful parenting”, ovvero di genitorialità pacifica? L’idea che sta dietro alla genitorialità pacifica è quella di una sorta di rivoluzione copernicana nell’educazione dei figli. Ma dalla parte del genitore.
Si tratta cioè di far crescere i figli senza rinunciare alle responsabilità genitoriali, senza abdicare ai valori e ai doveri degli adulti. A cambiare piuttosto è il come esercitare la responsabilità genitoriale: la base di tutto è lo stile dell’educazione paterna e materna, che deve appunto essere pacifica.
Non è in questione dunque la disciplina necessaria all’educazione dei figli. Anche nell’educazione pacifica la disciplina viene imposta, ma senza fare ricorso a strumenti repressivi come la violenza verbale (e meno che meno quella fisica). Dunque niente metodi aggressivi come fare una scenata o impartire ordini al figlio o ancora minacciarlo di punizioni se non riga dritto.
L’idea non è quella di crescere bambini “pacifici” o “silenziosi” che siano sottomessi per una sorta di timore servile. No, secondo il peaceful parenting il bambino rimarrà pieno di energia o anche birichino (senza che faccia male agli altri) e curioso come è normale che sia. È piuttosto il genitore che deve cambiare mentalità.
In tanti, spiega The Times of India, confondono lo stile genitoriale pacifico con lo stile genitoriale permissivo che spesso rischia di viziare i pargoli rendendoli irrispettosi, impulsivi e ribelli.
È un errore. Non è questo l’obiettivo finale – né il risultato auspicato – della genitorialità pacifica. A cambiare è semplicemente lo stile, non lo scopo dell’educazione. La finalità è sempre quella di strutturare e disciplinare la vita quotidiana dei figli, senza però essere troppo duri con sé stessi o con i propri figli.
A volte, si sa, è facile perdere la calma quando sembra davvero impossibile trattare coi figli, C’è chi perde le staffe, diventa furioso e urla. Scortesia e aggressività prendono il sopravvento in questi casi.
Ma il punto non è stabilire chi ha ragione tra genitore e figlio. Spesso e volentieri infatti il genitore ha completamente ragione nel merito davanti al comportamento del figlio. Ma per l’educazione pacifica è indispensabile soprattutto il metodo. Per il figlio conta più il comportamento del genitore. Contrassegno della personalità adulta è proprio la capacità di controllarsi, di saper gestire le proprie emozioni evitando che dilaghino in maniera distruttiva. Solo con l’autocontrollo è possibile gestire la situazione in maniera sensata.
Per questo è importante passare da una figura di genitore «reattivo» a una di genitore «pacifico». La prima responsabilità del genitore è quella di insegnare al figlio come imparare a gestire correttamente le piccole cose. Per esempio come evitare di versare l’acqua, imparare a vestirsi, a togliere i giocattoli lasciati alla rinfusa sul pavimento della stanza, ecc. Insomma, la chiave per gestire il caos si trova nelle sue mani di genitore.
Il sociologo Peter L. Berger spiega che diventare genitori significa assumersi un ruolo molto profondo nei riguardi dei bambini. Non si tratta solo di essere chi li ha messi al mondo. È molto di più che aver dato loro la vita fisica. Sì, perché «diventare genitore significa assumersi il ruolo di costruttore e protettore del mondo» agli occhi dei propri figli, dice Berger.
In altre parole il ruolo che implicitamente si assumono i genitori non è soltanto quello di rappresentare l’ordine in questa o quella società, ma di rappresentare l’ordine in sé: l’ordine che regge l’universo e che ci persuade fin da piccoli ad avere fiducia nella realtà. Non per nulla, fa notare il sociologo di origine austriaca morto nel 2017, la formula-base con cui padri e madri sono soliti rassicurare i loro bambini è: «Tutto è in ordine, tutto va bene».
Dicendo così, che ne sia consapevole o meno, il genitore si assume un ruolo che potremmo dire analogo a quello sacerdotale. Quel «tutto va bene» è destinato a imprimersi nel cuore del figlio non soltanto come una rassicurazione da quell’angoscia particolare, da quel dolore particolare. No, qui c’è ben di più in gioco: si tratta di una rassicurazione contro l’angoscia esistenziale, di un antidoto contro la fatica e la paura di vivere.
Mamma e papà, con la loro presenza rassicurante, ci dicono implicitamente, volenti o nolenti, che «tutto è a posto». Una formula che può essere espressa in un’affermazione di portata cosmica (nel senso proprio del termine, ovvero quello di «mondo ordinato»): «Abbi fiducia in quello che esiste».
La genitorialità è forse il primo avamposto contro il caos e la mancanza di senso che rischiano di travolgere l’intera esistenza. Cos’è che fa istintivamente un bambino quando si sveglia di notte, magari dopo un brutto sogno, e si trova circondato dal buio? Cosa fa quando si scopre improvvisamente solo, spaventato da minacce indistinte? In quel momento i contorni tutto sommato amichevoli della realtà quotidiana sono come cancellati o invisibili. Lì davanti c’è il caos, il terrore di essere inghiottiti dalle tenebre della notte.
Allora il bambino chiama in aiuto la mamma. Nessuno glielo ha insegnato: gli viene spontaneo e naturale farlo. E la madre, in genere, accorre subito. Non è esagerato, afferma Berger, dire che in quel momento la madre appare come «una grande sacerdotessa dell’ordine protettivo» capace di scacciare il caos che avanza e far sì che il mondo riacquisti il suo aspetto amichevole.
La madre farà quello che fanno tutte le buone madri: prenderà in braccio il piccolo, lo cullerà con quel gesto eterno della Magna Mater immortalato in tantissimi quadri e immagini (quelle mariane ad esempio). Poi accenderà una luce che avvolgerà la stanza buia col suo caldo bagliore. Parlerà o canterà una ninna nanna al piccolino. Con questi semplici gesti gli comunicherà implicitamente sempre lo stesso messaggio: «non temere, non avere paura, tutto è posto, tutto va bene».
E così il bimbo, una volta rassicurato, avrà riacquistato la smarrita fiducia nella realtà che gli appariva minacciosa. E se tutto va bene tornerà nuovamente ad addormentarsi. Gli incubi sono come svaniti. Ancora una volta, il conforto della mamma ci dice che c’è un ordine vitale superiore al caos.
Ma non è solo la mamma a rappresentare l’ordine. Anche il padre esercita questa benefica funzione. Pochi lo hanno espresso con la potenza di una scena bellissima de La strada, uno dei libri migliori di quello straordinario scrittore (scomparso da poco) che è stato Cormac McCarthy.
Lo scarna prosa di McCarthy ci introduce in un mondo devastato da qualche catastrofe epocale, ricoperto da una misteriosa e onnipresente polvere, senza luce del sole e forme di vita, animali o vegetali.
È il caos più totale: è un mondo anche socialmente polverizzato, fatto di competizione sfrenata, dove gli uomini sono in lotta gli uni con gli altri per sopravvivere. A qualunque prezzo, disposti anche a cibarsi dei loro simili. È in questo scenario disperato che si muovono un padre e un figlio. Si spostano verso sud, in direzione del mare. Senza sapere perché.
A un certo punto, nel cuore della notte, il padre si sveglia di soprassalto. Stavolta è lui, il genitore, a domandarsi smarrito: «Dove siamo?». Il figlio, spaventato, lo sente e gli chiede: «Cosa c’è papà?». Il padre si riprende subito (sa controllarsi) e gli risponde: «Niente, è tutto a posto. Dormi». Il dialogo tra i due prosegue. Il figlio è ancora preda delle sue insicurezze. E torno a chiedere rassicurazioni: «Ce la caveremo, vero, papà?». «Sì. Ce la caveremo», gli risponde ancora il padre. «E non ci succederà niente di male». «Esatto». «Perché noi portiamo il fuoco». «Sì. Perché noi portiamo il fuoco».
Anche il padre nel racconto del grande scrittore americano si rivela un sacerdote capace di riportare la calma e l’ordine in mezzo al caos esistenziale: un portatore di fuoco che scalda, ripara del freddo e illumina le tenebre della notte. E che assolve questo ruolo ristoratore senza porsi in maniera autoritaria e violenta nei confronti del figlio. Come un faro nella notte della vita, la sua parola calma, sicura e assertiva infonde la sicurezza di cui il figlio ha disperatamente bisogno.
Non serve perdere la calma coi figli, spiega sempre a The Times of India Kiva Schuler, fondatrice del Jai Institute for Parenting. «Possiamo essere strutturati, parlare con fermezza, stabilire limiti e avere aspettative. Lo facciamo da una posizione di leadership insegnando e dimostrando invece di reagire, urlare, rimproverare, vergognare, incolpare e punire».
Una fermezza tranquilla e sicura di sé indispensabile soprattutto in uno dei periodi più delicati della crescita dei figli: l’adolescenza. Il grande scrittore spagnolo José Ortega y Gasset ha descritto questo momento cruciale della vita di un giovane con un’immagine forte – qualche tempo fa tornata in auge grazie all’involontario assist di Alain Elkann, anche se con ben altre intenzioni.
Ortega descrive l’entrata in società degli adolescenti come una «invasione verticale dei barbari». Un’immagine forte? Indubbiamente. Ma attenzione: è solo un’iperbole per definire un fenomeno normale della vita collettiva.
Ad ogni generazione i giovani si aprono strada nella società adulta, confrontandosi e spesso scontrandosi. In questo senso sono dei «barbari verticali»: perché la loro è una “invasione” che procede non dall’esterno, ma dall’interno e da sotto. Questo incontro-scontro per i giovani è un passaggio necessario e fisiologico. E i genitori sono la prima linea con cui hanno a che fare e con cui si urtano. Da millenni funziona così: i genitori sono anche iniziatori alle regole del vivere sociale, insegnano che non tutto è permesso in società. Che bisogna comportarsi in un certo modo a scuola, al lavoro, rispettare certe regole, i compagni e gli insegnanti.
I ragazzi proseguono così quell’apprendistato verso la maturità iniziato fin da piccoli. Ancora una volta imparano che il rispetto – la base della «civiltà delle buone maniere» – nasce dal sapere contenere la propria prorompente esuberanza, nel dare un limite alle reazioni istintuali.
In altre parole, fanno un altro passo verso la vita adulta che, come detto, consiste soprattutto nella capacità di gestire in maniera ragionata le proprie emozioni, le proprie paure in particolare. Un passo indispensabile per calcolare e progettare il proprio futuro. Un po’ come Ulisse insegna al figlio Telemaco a trattenere la propria impulsività, smorzando il suo desiderio di passare subito all’azione, senza calcolare e pianificare le proprie mosse.
Così il compito (e il rischio) educativo si sovrappone a un ruolo di integrazione e di civiltà. Si tratta di integrare i «barbari verticali» per trasmettere loro il patrimonio di valori, saggezza e conoscenza conquistato con tanto sforzo delle generazioni precedenti. È dura? Sì, l’educazione è sempre un rischio, non un’equazione matematica. Ma è anche l’unica via per far spiccare il volo ai nostri figli, aiutandoli a farsi strada nella vita. A modo loro, ma su basi solide.
A scanso di equivoci lo ribadiamo: non c’è nulla di male in questo. Ognuno di noi, chi più chi meno, è stato un piccolo «barbaro verticale». Tutti ci siamo scontrati con chi provava pazientemente a introdurci ai rudimenti della civiltà. Guai a guardare con sufficienza o, peggio, con disprezzo il cammino di un giovane verso la maturità. Fa parte di un normale processo di crescita.
A tutti noi, fin da bambini, è stato insegnato a trattenerci. A non alzare la voce quando non serviva, a non correre sempre dove ci pareva (soprattutto in strada, ma non solo), a non mangiare tutto quello che volevamo e quando volevamo. O ancora: a non descrivere minuziosamente in pubblico i bisogni che avevamo fatto in bagno o a piangere per attirare l’attenzione degli adulti, a non pretendere di avere cose che non dovevamo avere (perché appartenevano ad altri) o non potevamo avere (perché costavano troppo).
Non è ipocrisia, è quella minima dose di finzione che serve a non trasformare la società umana in una giungla. Se esprimessimo sempre pubblicamente quello che pensiamo o reagissimo sempre d’istinto è facile immaginare che in men che non si dica il mondo diventerebbe – più di quello che è già – una specie di ring dove tutti se le danno di santa ragione. Buona educazione è dunque essere addestrati a convivere con gli altri contenendo le nostre reazioni viscerali. Altrimenti la società precipiterebbe in un vortice di caos e violenza.
Per questo, spiegano i sostenitori della genitorialità pacifica, bisogna rinunciare anche a uno stile comunicativo violento. «Il nostro compito come genitori è insegnare il pensiero orientato alla soluzione. Giudizio, colpa e atteggiamento difensivo sono tutti assenti nella comunicazione non violenta», spiega sempre Schuler che aggiunge: «Il nostro compito come genitori è insegnare il pensiero orientato alla soluzione».
È normale che il proprio figlio faccia errori lungo la strada che lo porta alla crescita, anche a ripetizione. Dovremmo saperlo bene. Tutti noi abbiamo cosparso di errori e tentativi malriusciti il nostro lungo e tormentato percorso verso l’età adulta.
Per questo è importante assicurarsi di non istillare un senso di vergogna o di imbarazzo nei figli quando capita loro commettere un errore o di dimenticare le cose. Il genitore è anche un “ripetitore” vivente: è lì per correggere e ripetere le correzioni. È l’unico modo per creare sane abitudini: ripetere atti positivi in modo che diventino una specie di “abito interiore” (l’abitudine appunto) che indossiamo con naturalezza.
Un genitore è anche un “orientatore”: deve orientare le passioni, disciplinarle, non reprimerle. Il suo ruolo è quello di aiutare i figli ad accantonare abitudini, pratiche e comportamenti negativi. E non è certo svergognare i figli la via maestra per farlo.
Infine, un ultimo caposaldo della genitorialità pacifica è quello che potremmo chiamare un sano bagno di umiltà. Il genitore non è una specie di divinità infallibile, che non sbaglia mai. Questa immagine del genitore infallibile porta inesorabilmente verso quella del genitore-dittatore, del despota costretto a negare anche il minimo errore.
Perché ammettere di aver sbagliato scalfirebbe l’aura divina di cui si è ammantato. Può forse un dio sbagliare? Se sbagliasse non sarebbe più dio. E via così al ciclo della negazione degli errori. Col risultato di umiliare e amareggiare i figli.
Non è meglio invece ammettere di non essere perfetti e rispettarsi a vicenda? «I bambini sono così intelligenti quando li coinvolgiamo nella creazione di soluzioni a ciò che non funziona, e ne sono consapevoli. Funzionano molto meglio in un luogo di collaborazione e partenariato che sotto una dittatura», sottolinea ancora Schuler, che conclude dicendo: «In questo ecosistema, tutti possono commettere errori. Ciò che conta è il modo in cui li ripuliamo».
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