La lotta contro la demenza passa anche, a quanto pare, per l’assunzione di alcuni farmaci che tutti abbiamo in casa: ecco quali.
Probabilmente abbiamo in casa un’utile arma di prevenzione della demenza, ma non lo sappiamo. Le applicazioni alternative di farmaci contenenti semaglutide devono essere testate e utilizzate nel trattamento di individui affetti da diabete e obesità, a partire da Wegovy e Ozempic. A dirlo sono alcuni scienziati americani citati dal Mirror, secondo i quali gli stessi farmaci potrebbero avere un impatto positivo sulla prevenzione di diverse patologie, come la demenza. Una condizione, quest’ultima, sempre più diffusa in Italia e non solo. Vediamo insieme cosa dicono le ultime ricerche in materia.
Secondo i ricercatori dell’Università della Carolina del Nord, negli Stati Uniti, come peraltro già suggerito da altri studi, gli individui che assumono questo tipo di farmaci per il diabete sono meno soggetti ad ammalarsi di demenza e altre patologie cognitive. La ricerca attuale mira dunque a confermare che semaglutide può rallentare la progressione dei sintomi della demenza nelle persone che hanno già subìto un certo declino cognitivo. Si pensa che farmaci di questo tipo possano avere un impatto positivo su percorsi cerebrali importanti per la memoria e la cognizione. Ma non è tutto.
Insomma, i ricercatori di cui sopra sono ottimisti sul potenziale di questi farmaci per rivoluzionare il trattamento di varie malattie, comprese quelle legate all’invecchiamento. Ma, naturalmente, sottolineano l’importanza di una ricerca rigorosa e di ulteriori studi clinici per confermare le evidenza già raccolte.
Al tempo stesso, un nuovo studio, pubblicato nei giorni scorsi, ha suggerito che l’assunzione di farmaci per il reflusso può aumentare significativamente il rischio di demenza. Più specificamente, l’associazione è stata riscontrata in individui che avevano già utilizzato tali medicinali per quattro anni e mezzo o più.
Pubblicato nell’edizione online di Neurology, lo studio ha coinvolto quasi 6000 soggetti, di età pari o superiore a 45 anni, che non soffrivano di demenza all’inizio dello studio. Avevano un’età media di 75 anni e sono stati seguiti per cinque anni. Tutti sono stati divisi in gruppi e, tra i partecipanti, circa il 26% ha assunto i farmaci in questione. Dopo aver esaminato altri fattori, come l’età, il sesso e alcuni indicatori legati alla salute, i ricercatori hanno scoperto che gli individui che avevano assunto farmaci per il reflusso per più di quattro anni avevano un rischio maggiore del 33% di demenza. La stessa relazione non è stata riscontrata tra coloro che avevano assunto i farmaci per meno tempo.
In ogni caso gli scienziati, citati da News Medical, sottolineano che rimane la necessità di approfondire ulteriormente la correlazione tra demenza e uso a lungo termine di inibitori della pompa protonica, cioè farmaci da reflusso.
Ridurre il rischio di demenza del 50% è possibile grazie semplicemente all’uso di un apparecchio acustico. La conclusione è tratta da uno studio pubblicato su The Lancet. Gli autori riferiscono che il dispositivo avrà maggiore effetto se utilizzato ai primi segni di perdita dell’udito. La ricerca ha preso in esame soggetti di età compresa tra 70 e 84 anni che hanno riscontrato problemi uditivi, ma senza alcun declino cognitivo correlato. Ad alcuni di essi è stato fornito un apparecchio acustico.
Sebbene non si riscontrino differenze per quanto riguarda il declino cognitivo nei due gruppi nell’arco di tre anni, un’analisi più approfondita ha messo in rilievo un effetto positivo per coloro che hanno utilizzato l’apparecchio. Parte del gruppo che già presentava fattori di rischio ha ottenuto risultati peggiori nei test cognitivi. Lo studio ha anche cercato di far luce sulla relazione tra perdita dell’udito e demenza. A quanto pare, una parte del cervello inizia a diventare più piccola quando non riceve informazioni dall’udito e che occorre un grande sforzo cerebrale per capire cosa dicono le altre persone quando l’udito è carente.
Un altro studio pubblicato sul Journal of Neuroinflammation suggerisce invece che la gengivite può essere collegata alla demenza. La ricerca indica che i batteri orali sono in grado di raggiungere il cervello. Se questa malattia non è trattata nel suo stadio iniziale, può peggiorare e scatenare un altro tipo di condizione, come la parodontite, suscettibile di provocare ferite più gravi sulle gengive e la caduta dei denti.
La ricerca, a cura del Forsyth Institute e della Boston University, negli Stati Uniti, ha rivelato che potrebbe esserci un legame tra questa grave malattia gengivale e la formazione di placca amiloide, associata alla malattia di Alzheimer. “Sapevamo da studi precedenti che l’infiammazione associata alle malattie gengivali attiva una risposta infiammatoria nel cervello“, ha spiegato il dottor Alpdogan Kantarci, del Forsyth Institute. “È una ferita aperta che consente ai batteri della bocca di entrare nel flusso sanguigno e circolare in altre parti del corpo“.
Lo studio in questione, condotto su animali, ha dimostrato che i batteri sono in grado di raggiungere il cervello. “La presa d’atto che i batteri orali causano la neuroinfiammazione aiuterà a sviluppare strategie più mirate. Per prevenire la neuroinfiammazione e la neurodegenerazione, sarà fondamentale controllare l’infiammazione orale associata alla malattia parodontale“, conclude Kantarci.
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