Questo fenomeno sta coinvolgendo anche molti giovani nel nostro paese. Un’azienda italiana sta sviluppando una nuova cura interessante.
A volte è normale sentire il bisogno di fuggire dagli stress e dalle pressioni del mondo esterno. Brevi periodi di solitudine possono ridurre le risposte acute allo stress e possono aiutarci a superare malattie e spossatezza. Periodi di parziale isolamento possono essere utili anche per un’evoluzione personale, per esplorare meglio la propria identità. Alcune persone, però, non riescono a riemergere da questi periodi di naturale isolamento.
Al contrario, si chiudono in un ritiro estremo e persistente che dura per mesi o anni, causando disagio a loro stessi e a chi si prende cura di loro. In Giappone, questo modello di comportamento era così comune negli anni ’90 che fu addirittura creato un nome per riferirsi ad esso: “hikikomori“. Questo problema, negli anni, si è diffuso in molte altre parti del mondo e oggi si cercano soluzioni per affrontarlo.
Durante gli anni 90 il Giappone attraversò un’importante crisi economica e sociale che impedì a molti giovani di raggiungere i loro obiettivi. Molti di questi scelsero di reagire nascondendosi nelle proprie camere, quasi a voler celare la vergogna di non aver saputo superare le difficoltà. Alcuni di loro non sono più riemersi.
Il termine hikikomori (derivato dal verbo hiki “ritirarsi” e komori “essere dentro”) è stato coniato nel 1998 dallo psichiatra giapponese Professor Tamaki Saito. Il fenomeno si è ben presto diffuso al di fuori dei confini del Giappone e ora è utilizzato in tutto il mondo per descrivere chiunque mostri le caratteristiche appena descritte.
L’hikikomori è attualmente visto come un fenomeno di salute mentale socioculturale, piuttosto che una vera e propria malattia. Gli individui colpiti sono principalmente maschi tra i 14 e i 30 anni.
Secondo le istituzioni che si occupano del problema, negli ultimi anni il numero di hikikomori è salito fino a raggiungere almeno l’1,2% della popolazione (circa un milione di persone). La situazione è ancor più peggiorata dopo la pandemia, che ha acuito ancora di più i problemi dei giovani e le disuguaglianze sociali.
Anche in Italia si stima che circa 100.000 giovani siano caduti in questo tipo di isolamento. Riconoscere una persona che cade in questa particolare condizione non è sempre facile. Ancor meno capire come aiutarla.
Ci sono diverse caratteristiche che delineano un hikikomori. Si definisce tale una persona che è fisicamente isolata nella propria casa per almeno sei mesi, tagliata fuori da relazioni sociali significative. Nei casi più estremi, gli hikikomori rifiutano addirittura di prendersi cura di se stessi.
Accanto all’isolamento fisico, le persone hikikomori mostrano un estremo distacco psicologico dal mondo. Evitano qualsiasi luogo in cui è richiesta un’interazione sociale, come una scuola o un posto di lavoro. Alcuni utilizzano internet per mantenere un collegamento minimo con il mondo esterno, ma raramente lo usano per interagire con altri utenti.
Le ricerche mostrano che alla base della scelta di diventare un hikikomori ci sono spesso esperienze traumatiche di vergogna e sconfitta, come il fallimento di esami importanti, o il non ottenere un lavoro ambito. Evitano di subire di nuovo questi traumi scegliendo di tirarsi fuori dal percorso “normale” stabilito per loro dalla società.
La condizione di un hikikomori, infine, ha risvolti negativi anche sul benessere della sua famiglia. I servizi di salute mentale, educativi e di assistenza sociale sono troppo spesso concentrati sul rispondere a problemi più drammatici o visibili. Questa situazione lascia isolate le famiglie, senza la possibilità di rivolgersi a qualcuno che sappia veramente come trattare questo tipo di situazioni.
Con il riconoscimento dell’aumento globale degli hikikomori, è probabile che le istituzioni si accorgeranno della necessità di migliori opzioni di trattamento. Recentemente, proprio in Italia è stato presentato uno strumento di intervento per provare ad affrontare queste situazioni.
Agli inizi di luglio, in provincia di Salerno, si è tenuta la prima edizione del Giffoni Good Games, una manifestazione promossa dal Giffoni Innovation Hub, un ente che si occupa di progetti ad alto impatto sociale.
Tra i vari progetti presentati c’è stato il videogioco “Hiki: an exit-sential adventure“, sviluppato Hub in collaborazione con l’Associazione Hikikomori Italia. Nel gioco, i giocatori vestono i panni di H, un giovane hikikomori che si trova ad affrontare i suoi demoni interni, raffigurati come mostri virtuali, per ritrovare la sua famiglia scomparsa.
L’esperienza di gioco è progettata per far emergere questioni cruciali quali l’isolamento sociale, l’emarginazione e il bullismo, che spesso conducono una persona a diventare un hikikomori. Sebbene il gioco non possa essere considerato un sostituto per una terapia professionale, può servire per educare e diffondere una maggiore consapevolezza delle ragioni che portano a questo tipo di isolamento.
La genialità del gioco “Hiki” sta nel suo approccio diretto e immersivo. Mentre la terapia tradizionale può spesso essere una strada lunga e spaventosa per chi deve affrontarla, questo videogioco offre un modo immediato e coinvolgente per i giovani di affrontare le proprie paure e inquietudini. In un contesto ludico, i giocatori vengono messi nella posizione di esplorare le ragioni alla base del loro isolamento, offrendo spunti di riflessione che possono essere cruciali nel processo di guarigione.
Questo videogioco è solo l’ultimo dei progetti in cui è impegnata l’Associazione Hikikomori Italia, che offre anche gruppi di mutuo aiuto, una piattaforma Facebook dedicata e supporto psicologico per le famiglie. Altri progetti, come la graphic novel “Hikikomori: il re escluso” e l’iniziativa Nove ¾ del Gruppo Adele di Torino, arricchiscono ulteriormente il panorama di risorse disponibili.
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