Se è esiste davvero l’elisir di lunga giovinezza, pare proprio che i millennial lo bevano regolarmente: sai perché sembrano più giovani?
È un incontrovertibile dato di fatto: la generazione Y, meglio conosciuta come Millennial, ha stretto una sorta di patto col diavolo per apparire più giovane di quello che è in realtà. Come dei novelli Dorian Gray, mentre il quadro in soffitta avverte lo scorrere del tempo, i millennial vanno in giro per il mondo causando non poca invidia quando rivelano la loro vera età.
Insomma, se sei nato tra il 1980 e il 1996, sai bene di cosa stiamo parlando. Almeno una volta nella vita, infatti, ti sarà capitato di sentirti dire che dimostri molti anni in meno, addirittura ben 10! Ma non solo. C’è ancora chi è costretto, alla soglia dei 30 anni, a mostrare la carta di identità per poter entrare in discoteca o consumare alcolici. Ma come è possibile che i trentenni di oggi dimostrino anche meno di 20 anni?
Esiste davvero un elisir di lunga giovinezza o siamo di fronte al frutto di una rara e insolita congiunzione astrale? Forse, si tratta di entrambe le cose oppure, più semplicemente, i Millennial sono il frutto di un periodo culturale e sociale ben preciso che ha gettato le basi a una precarietà di fondo che penetra la pelle, lasciandola intatta, per arrivare dritta all’anima. Se si chiedesse a un Millennial, infatti, quanti anni si sente, la risposta sarebbe davvero preoccupante.
Alla scoperta dei Millennial, la generazione “perduta” in un limbo di incertezza
Se c’è chi, infatti, si sente di non aver ancora vissuto o peggio cominciato la propria vita “adulta”, c’è chi, invece, avverte già tutto il peso dell’esistenza e ne è così stanco, schiacciato e stravolto, da riuscire a stento a sopportarlo in nemmeno 30 anni di vita. Al netto dei complimenti, il caso, il caos e l’anarchia di azioni e pensieri accompagnano la generazione Y riflettendosi nel quotidiano. Ed essere “giovani per sempre” diventa più una condanna che non un privilegio in un mondo che va dritto per la sua strada.
Dal 2007, tutti i sogni del neoliberismo, del mercato libero, della globalizzazione e della ricchezza urbi et orbi si sono scontrati con la “Grande recessione“. Tra il 2007 e il 2013, infatti, la generazione Y è stata la prima ad affrontare una delle più importanti crisi economiche che ha coinvolto tutto il mondo, dopo la crisi dei subprime e del mercato immobiliare negli Stati Uniti.
E così, se i primi anni 2000 sono stati caratterizzati, nonostante tutto, da un profuso sentimento di ottimismo e speranza, una volta esplosa la bolla immobiliare, si è dovuto fare prepotentemente i conti con una realtà che sembrava superata da un po’. E cercare il proprio posto nel mondo diventò all’improvviso molto più complicato. Nessun miracolo economico, nessun baby boom, nessuna laurea con lode potevano garantire un futuro roseo e solido.
La crisi occupazione che ha segnato una generazione
E ben presto si è cominciato a paragonare i Millenial alla “Generazione perduta“. Stiamo parlando di quella che aveva compiuto 18 anni al fronte, circondato da morte e miseria durante la prima guerra mondiale. Insomma, uno scenario poco confortante, ma il parallelismo serviva proprio per dimostrare come si dovesse “combattere” ancora per una vita opaca e dai contorni sfumati.
Ecco perché diversi governi hanno istituito programmi ad hoc per promuovere l’occupazione giovanile. Ma non solo. Per evitare disordini sociali e un diffuso malcontento generale come avvenne nel 2008 in Grecia, dove la disoccupazione giovanile crebbe a dismisura, si cercò di “dialogare” con questi giovani che giovani nel frattempo non lo erano più. Se fino a qualche anno prima, infatti, a 30 anni si era già uomini e donne fatti e finiti, ben presto i 30 anni hanno rappresentato i nuovi 20 nell’accezione più negativa del termine.
in Europa i livelli di disoccupazione giovanile erano e restano molto alti. Giusto per dare qualche dato relativo alla crisi occupazione che caratterizzò il 2010 e non solo, in Spagna si registrò il 40%, il 35% nei paesi baltici, il 30% in Gran Bretagna e oltre il 20% in altri paesi europei. E anche l’Italia venne travolta: il 37% dei “giovani”, infatti, era disoccupato. E chi era nato sul finire della generazione Y non sapeva mica che da lì a poco avrebbe ingrossato le fila di un sistema fatto di stage full time a 600 euro al mese che bastano a stento per coprire l’affitto di una camera in periferia.
Cosa significa avere 30 anni oggi?
Ma oltre a una questione economico-sociale che impedisce nel concreto di comprare casa, avere una macchina e mettere su famiglia come si faceva un tempo, c’è anche una componente squisitamente culturale da indagare. Nella sua banalità, è una verità non da poco. Ma quando si dice sospirando e con un cenno di malinconia che i tempi sono cambiati, effettivamente non si può affermare il contrario o far finta che non sia così.
Se le generazioni dei nostri genitori e dei nostri nonni hanno scoperto internet e i social in “tarda età” e si sono dovuti adattare a una comunicazione smart e veloce, corredata da immagini, caption e story all’apparenza più interessanti di quanto non lo siano in realtà, i Millenial sono stati plasmati dai social. Anzi, possiamo dire bene come lo smartphone sia ormai un’estensione del proprio braccio. Ma attenzione, sarebbe strano il contrario in un mondo così digitalizzato e interconnesso.
Ovviamente, questo modo di intendere la società e i rapporti personali si riflette poi sulla vita del singolo. Motivo per cui i trentenni di oggi non appaiono minimante come chi aveva 30 anni nel 1980 o nel 1990, quando ancora c’era il telefono a gettoni, l’Urss e bastava uno stipendio per vivere dignitosamente. Eppure, proprio sui social c’è chi si chiede come sia possibile che i Millenial siano quasi degli eterni Peter Pan, incapaci di crescere e abbracciare la vita adulta.
“Why Don’t Millennials Age?”: il trend su TikTok che cerca di spiegare i giovani adulti di oggi
Su TikTok, infatti, l’hashtag “Why Don’t Millennials Age?” (ovvero perché i Millenial non dimostrano la loro età) vanta circa 19,4 milioni di visualizzazioni. A dimostrazione del fatto che è un tema tanto curioso quanto dibattuto. Se c’è chi crede che l’accessibilità ai ritocchini come filler e botox semplifichi di molto il congelamento anagrafico, altri hanno fatto cenno alla depressione, ormai cronaca e conclamata, che accompagna la generazione Y.
Stando a casa tutto il giorno con la paura di uscire e affrontare il mondo, i raggi UV non rovinerebbero la pelle che resterebbe così intatta come quella delle bambole di porcellana. Ma non finisce qui. Proprio perché tutto si svolge sui social e si ha una dipendenza così forte e diretta della propria immagine, si fa di tutto per apparire sempre al meglio e al top della forma. L’aspetto, infatti, determina chi siamo o quello che vorremmo, in un corto circuito costante tra realtà e immaginazione che si sovrappongono a volte anche pericolosamente.
O forse, più semplicemente, è proprio così che devono essere i trentenni di oggi ma non ce ne rendiamo conto abbastanza da assimilarlo correttamente. Il nostro cervello, infatti, lavora per assimilazione e costrutti mentali. E questi ci permettono di ridurre la complessità della realtà, aspetto questo fondamentale per sopravvivere planando sopra la confusione. E proprio perché è ancora incarnata nell’immaginario collettivo la figura del trentenne fatto e finito e che sa quello che vuole dalla vita, si fa fatica ad accettare una nuova versione più “giovane”, fragile e incerta sul proprio futuro.
In realtà, il tema è più complesso di quanto possiamo immaginare e le soluzioni che si possono fornire a questa distorsione temporal-fisico-mentale sono davvero tantissime. Una cosa è certa però: noi siamo ciò che ci accade. E se oggi si fa fatica ad avere una stabilità sociale, emotiva e lavorativa, questa per forza di cose si deve riflettere in altri aspetti più personali della propria vita, nonché della propria immagine che appare sempre quella di un liceale nell’attesa dei “trent’anni vincenti e seducenti”.