Mettendo i vestiti all’interno dei cassonetti gialli abbiamo sempre pensato che andassero ai poveri. Le cose però sono ben diverse.
I più bisognosi, nel caso dei contenitori di colore giallo agli angoli delle strade, non c’entrano proprio nulla. Allora a chi vanno gli indumenti usati? Ecco la verità sulla fine che fanno i vestiti depositati in questi cassonetti.
È una di quelle cose che diamo sempre per scontate, sulle quali non ci si sofferma più di tanto a riflettere e a pensare. Parliamo dei cassonetti gialli, quelli che vediamo ai lati per le strade e destinati dalla raccolta dei vestiti.
Bene, ma che fine fanno i vestiti che vengono riposti all’interno di questi cassonetti dal colore giallo? Probabilmente ogni volta che abbiamo depositato una busta contenente vestiti o scarpe all’interno di uno di questi lo abbiamo ritenuto un gesto utile, pensando che ne avrebbe senz’altro beneficiato qualcuno più povero e più bisognoso di noi.
Lo abbiamo pensato in tanti, no? Sembra ovvio e naturale che i vestiti raccolti finiscano a più bisognosi. Ci siamo sentiti tutti un po’ emuli di San Francesco a gettare i nostri capi d’abbigliamenti vecchi in questi contenitori. Se è così, dobbiamo confessare di aver preso decisamente un abbaglio. Nulla di più sbagliato, in questo caso, che credere di aver fatto chissà che opera di beneficenza. Sì, perché la raccolta di indumenti nei famosi cassonetti gialli non è affatto destinata ai poveri.
Tutti noi avremo senz’altro usato cassonetti di questo tipo. Ma non hanno alcuna funzione assistenziale. Nessun giallo dei cassonetti gialli però: questi ultimi non sono altro che contenitori di abiti usati per la raccolta differenziata. Niente di più e niente di meno di quelli usati per differenziare altri rifiuti. Si tratta di cassonetti per fare la differenziata dei vestiti usati, esattamente come esistono i contenitori per l’organico, la carta, la plastica, il vetro, ecc. Come esistono questi contenitori esiste anche quello adibito alla cosiddetta differenziata della frazione tessile urbana.
In Italia questo tipo di raccolta, come vediamo, esiste già. A livello europeo l’obbligo di legge scatterà invece a partire dal 2025, quando entrerà definitivamente in vigore. Per dare un’idea di quanto sia utile riciclare anche il tessile basti pensare che ogni secondo c’è un camion di vestiti che viene bruciato oppure portato in discarica. Ragione per cui è più che giustificato anche il riciclo del tessile.
È una cosa forse poco nota, ma l’industria tessile è una delle più inquinanti al mondo. Tra le cause principali dell’inquinamento da tessile si trova il fast fashion: la moda veloce che ha costruito le sue fortune sull’abbigliamento usa e getta a prezzi medio-bassi e che spopola nei centri commerciali.
Una tendenza che ha conosciuto un boom in tutto il pianeta, facendo esplodere però anche le emissioni tossiche. Da qui il paradosso per cui acquistiamo sempre più vestiti che però ci durano la metà. E che finiscono spesso e volentieri in discariche lontane da noi e dalla nostra vista, fuori dal continente europeo.
I dati forniti dalla Ellen MacArthur Foundation sull’inquinamento ambientale prodotto dal tessile lasciano davvero senza parole. L’industria dell’abbigliamento mondiale può vantare cifre da capogiro. Le stime parlano di un business da 1.3 trilioni di dollari di fatturato. In tutto il mondo il settore del tessile occupa oltre 300 milioni di persone. Soltanto la produzione del cotone rappresenta quasi il 7% di tutti gli impieghi in alcuni Paesi più poveri.
Allo stesso tempo ogni anno l’industria dell’abbigliamento impiega qualcosa come oltre 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili, tra le quali il petrolio che serve per la produzione delle fibre sintetiche. Ci sono poi i fertilizzanti impiegati nelle piantagioni di cotone, i prodotti chimici usati nella produzione, tintura e rifinitura di fibre e tessuti.
Inoltre vanno aggiunti anche 93 miliardi di metri cubi di acqua che danno il loro contributo nel peggioramento degli eventi legati alla siccità. Senza contare l’emissione di circa 1,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e di 500 mila di fibre di microplastica che vengono riversate nei mari.
In altre parole, da sola l’industria dell’abbigliamento produce annualmente più gas serra di quanti ne producano tutti i voli internazionali e trasporti marittimi messi assieme. In più ci sono da calcolare le ricadute sociali: il lavoro nel tessile nei Paesi più poveri è legato spesso e volentieri a salari molto bassi, con un numero esagerato di ore di lavoro, oltre al lavoro minorile in condizioni di schiavitù.
Fenomeni come la diffusione della “fast fashion” unita all’aumento dei redditi a livello mondiale hanno portato poi nel giro di 15 anni a un raddoppio della produzione di abbigliamento, passata dai 50 miliardi di pezzi del 2000 agli oltre 100 miliardi del 2025. In parallelo la media di impiego di ogni capo è calata del 36% (raggiungendo un picco del 70% in Cina).
Un abbigliamento che per 460 miliardi di dollari di valore potrebbe ancora essere riutilizzato e che invece viene destinato allo scarto, mandato nelle discariche e negli inceneritori. Infatti meno dell’1% del materiale usato nella produzione tessile viene riciclato per confezionare altri vestiti.
Siamo dunque in presenza di un’industria che impatta notevolmente sull’ambiente. Secondo i dati della Commissione europea il settore del tessile è responsabile del 10% delle emissioni globali di gas serra. Viste le conseguenze sempre più pesanti sul clima di cui siamo testimoni a ritmi sempre più serrati non sarà inutile allora pensare al contributo che tutti possono dare per cercare di migliorare le cose.
In questo quadro ben poco esaltante esistono però lodevoli eccezioni. Come quella italiana. Già, perché nel nostro Paese a voler essere onesti è da tempo che la filiera tessile si muove in direzioni più sostenibili dal punto di vista ambientale.
Anche se non mancano i problemi di gestione, l’Italia ha anticipato di tre anni gli altri Paesi europei rendendo obbligatoria già dal gennaio 2022 la raccolta differenziata dei rifiuti tessili.
Nella Penisola la gestione collettiva dei rifiuti tessili è stata affidata a dei consorzi, sul modello di quanto già accade con lo smaltimento degli imballaggi, dei rifiuti Raee (elettrici e elettronici) e degli penumatici. I nomi di questi primi consorzi per la gestione dei rifiuti tessili sono Ecoremat e Ecotessili, Retex.green e Cobat.
Ad ogni modo tutto questo poco o niente ha a che fare con gli aiuti e la beneficenza a vantaggio dei più poveri. Di questi compiti di assistenza si fanno carico le parrocchie, la Caritas e le onlus assistenziali. Malgrado i messaggi che a volte leggiamo sugli stessi cassonetti, la realtà è che si tratta di una comunicazione fuorviante. I vestiti che buttiamo nei cassonetti gialli, come detto, si incamminano lungo un’altra direzione. Cerchiamo di capire qual è.
Lo smaltimento dei vestiti inizia nel momento in cui gettiamo l’abito nel cassonetto, dove resta fino a quando non passa a ritirarlo uno degli addetti alla raccolta degli indumenti. Già durante questa fase viene messo in atto un primo controllo. Il compito dell’operatore è infatti quello di appaiare le scarpe che non sono state gettate insieme. Provvederà anche a eliminare eventuali indumenti bagnati oltre che a rimuovere l’eventuale presenza di rifiuti estranei finiti nel cassonetto.
Dopo questa prima scrematura i vestiti potranno partire in direzione degli impianti di trattamento. Una volta giunti a destinazione si opera la prima selezione. Il 70% degli indumenti viene riciclato, poi igienizzato e dunque suddiviso per tipologia (pantaloni, giacche, abbigliamento da uomo o da donna e così via).
Dopo il riciclo questi abiti sono destinati alla vendita. Di solito sono venduti all’estero, in Paesi come il Ghana, il Niger ma anche nell’Europa dell’Est. Tutto quello che rimane nell’impianto non può essere riciclato. A questo punto si passa allora al riuso, il che significa che vengono impiegati come stracci nelle aziende. Oppure, quando possibile, il tessuto viene riutilizzato.
Solitamente i tessuti ottenuti in questa maniera prendono la via per la Cina, il Pakistan o l’India dove si confezionano altri capi di abbigliamento ultra economici. Invece i tessuti di maggiore qualità rimangono in Italia. In particolare, vengono mandati a Prato dove ci sono imprese che trattano il riutilizzo di questa materia prima sottoposta a un processo di rigenerazione. Al termine di tutto il processo, soltanto il 5% del materiale viene scartato e va a finire in discarica.
Naturalmente per contribuire al riciclo in maniera corretta ci sono delle norme di comportamento da seguire. Prima di tutto nel cassonetto dovrebbero finire soltanto capi d’abbigliamento puliti. Dunque gli indumenti devono essere depositati nei cassonetti gialli non sfusi, ma all’interno di buste chiuse.
Nei cassonetti gialli non vanno buttati invece abiti sporchi, inzuppati di grasso, di pittura oppure maleodoranti. Per il riciclo degli indumenti sporchi c’è l’indifferenziata. Si può gettare nei cassonetti gialli anche la biancheria intima, a condizione che sia pulita.
Stesso discorso per lenzuola, tende, tovaglie ecc. Borse e scarpe appaiate vanno a loro volta riposte in buste chiuse prima di essere gettate nei cassonetti. Poco importa se un abito ha qualche leggero strappo o un buco. In questo caso può essere ancora riciclato. Ciò che davvero conta è che non sia un indumento inservibile, vale a dire sporco, lercio o bagnato.
In un paio di occasioni all’anno almeno non è male fare decluttering, ovvero disfarci di tutti quegli oggetti di casa inutili. A cominciare dai vestiti. Si tratta di un metodo molto in voga nei Paesi anglosassoni ma che sta prendendo piede anche da noi e che ci permette non solo di sbarazzarci di quello che non ci serve più, ma anche di fare ordine in casa. Così si guadagna spazio e si fa anche ordine mentale, rendendo più ariosa la nostra abitazione.
Il decluttering può permetterci anche di risparmiare: accumulando roba negli armadi è facile dimenticarsi cosa sia contenuto al loro interno. Così potremmo finire per acquistare uno stesso oggetto della medesima tipologia, scordandoci di averlo già in casa.
Facendo un veloce inventario degli oggetti – in questo caso dei capi di abbigliamento – presenti nella nostra abitazione potremo evitare di sprecare denaro in spese inutili. Il che non è male in un tempo in cui si cerca di risparmiare un po’ su tutto. Col decluttering potremo evitare di sborsare soldi in più.
Come fare il decluttering? Quando arriva il momento del cambio di stagione svuotiamo completamente l’armadio e dividiamo tutto il contenuto in tre grandi categorie:
Gli abiti destinati allo scarto possono prendere tre direzioni. Potremo metterli in vendita con Vinted per realizzare un guadagno coi vestiti usati. Ma possiamo anche decidere di darli in beneficenza. Infine resta l’ultima via: gettarli nei famosi cassonetti gialli.
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