Urlare quando si sgrida il bambino può avere conseguenze molto pesanti per la sua salute mentale. Lo dicono le neuroscienze.
Meglio puntare su metodi educativi che non prevedano il ricorso alla violenza verbale, più sani per la crescita dei nostri figli.
Forse pochi sanno che in pieno Ottocento una delle grandi novità in campo pedagogico fu il tentativo di applicare il cosiddetto «metodo preventivo» in campo educativo. Uno dei suoi grandi campioni fu il sacerdote piemontese don Giovanni Bosco. Allora infatti imperava (e lo avrebbe fatto a lungo) il metodo opposto: il sistema educativo «repressivo», che puniva e reprimeva duramente gli alunni e i bambini beccati in castagna.
Don Bosco invece proponeva che gli educatori parlassero col linguaggio della ragionevolezza e dell’amore, formando i cuori degli allievi. Da qui l’idea che l’educatore dovesse agire come un padre amorevole, non come un gendarme inflessibile. Guadagnare il cuore per parlare alla ragione, questo era un po’ il nucleo del discorso.
Da allora si sono fatti indubbiamente dei passi in avanti, ma i sostenitori del metodo repressivo (che veniva applicato un po’ ovunque, anche in famiglia e sul lavoro) non hanno mai alzato del tutto bandiera bianca, almeno nella pratica. Ancora oggi tutto sommato, magari senza ammetterlo in teoria, nella pratica spesso e volentieri ci si comporta come se punire, alzare la voce e minacciare i bambini fosse un metodo efficace per farli rigare dritti.
Di diversa opinione è la pediatra francese Catherine Gueguen, che da 28 anni lavora presso l’ospedale Franco-Britannico di Levallois-Perret, alle porte di Parigi. Dovunque vada la dottoressa Gueguen porta questo messaggio: c’è bisogno di una rivoluzione educativa per cambiare il nostro modo di trattare i bambini.
I recenti progressi delle neuroscienze mostrano che punire, urlare e minacciare i piccoli non soltanto è un metodo che non funziona, ma che finisce per danneggiare la loro salute mentale. Insomma, il sistema repressivo arriva addirittura per colpire il cervello dei minori, provocando in loro mutamenti permanenti che, a lungo andare, possono portare a problemi come ansia o depressione. Da qui la necessità di modificare il rapporto coi bambini.
Come detto, si tratta di convinzioni generalmente accettate. Oggi ad esempio proliferano sui social i guru della cosiddetta «educazione positiva», con milioni di follower sui social e un boom anche in campo scientifico. L’impressione però è che tutto rimanga a un livello piuttosto astratto e teorico: a livello pratico spesso è difficile trattenersi dal gridare, non è facile mantenere l’autocontrollo.
Comunque sia la pediatra francese rinforza le sue teorie con un bel po’ di dati raccolti a livello mondiale dall’Unicef, dai quali emerge che quattro bambini su cinque nel mondo sono soggetti a un’educazione verbalmente o fisicamente violenta. Sbalordisce in particolare il dato dell’80% di bimbi che ricevono qualche sorta di punizione corporale.
Altri dati condivisi da Catherine Gueguen fanno riferimento invece ai risultati di un recente sondaggio (risalente a ottobre 2022) condotto in Francia. I risultati sono eloquenti: il 79% dei 1.314 capifamiglia intervistati ha ammesso di aver fatto ricorso alla violenza psicologica per educare i propri figli. «Può darsi che pensiate che la violenza non sia diffusa. Ma credetemi, lo è», dice la pediatra. Che poi aggiunge: «Da pediatra ho sentito molti genitori dirmi che quando perdono la pazienza puniscono, minacciano o addirittura picchiano i loro figli».
Molte cose sono cambiate nel nostro approccio alle cose della mente da quando il neurologo portoghese Antonio Damasio pubblicò nel 1994 il libro L’errore di Cartesio, dando a emozioni e sentimenti il ruolo che spetta loro nel comportamento umano. «Prima le consideravamo poco importanti», afferma Damasio. «Eppure, le emozioni sono essenziali. Volevo dare loro il ruolo appropriato: sono quanto ci rende umani».
Il messaggio del libro è che un approccio troppo cerebrale, che separa nettamente ragione e emozione, è sbagliato. Cartesio perciò si sbagliava, e di molto, col suo famoso cogito, ergo sum quando affermava «Penso, dunque sono». Un motto al quale Damasio propone di sostituirne un altro: «Sento, dunque sono».
A riprova della sua affermazione Damasio porta il funzionamento della corteccia prefrontale: un’area di materia grigia dello spessore di diversi millimetri. Localizzata sopra la zona orbitale, mette in collegamento diverse parti del cervello con altre che determinano la nostra risposta motoria e psicologica. Il neuroscienziato mostra così come emozioni e sentimenti giochino un ruolo chiave nella nostra razionalità. Una conclusione alla quale arriva misurando i campi magnetici che producono le correnti elettriche che attraversano le nostre menti.
Diversi altri studi neuroscientifici (in Usa, Canada, Nord Europa, Australia, Cina) hanno approfondito gli aspetti legati alla cosiddetta «plasticità cerebrale»: su come cioè il nostro cervello si modifichi sulla base delle esperienze vissute.
Tra questi ci sono anche gli effetti negativi prodotti dal sistema educativo repressivo. Oggi è chiamato «educazione negativa», ma la sostanza resta quella al di là dell’etichetta verbale usata. Si tratta di tutti quegli episodi in cui i minori sono vittime di qualche genere di tradimento della fiducia che hanno riposto nei loro caregiver, con effetti pesanti sul loro cervello.
Stiamo parlando, per intenderci, di abusi. Intesi come aggressioni verbali che mirano a umiliare, denigrare o incutere paura al bambino, oppure di abusi emotivi che provocano sentimenti di vergogna o di colpa, in aggiunta ad altre forme di abuso fisico come le percosse.
Inizialmente le neuroscienze studiavano i casi più gravi: quelli dei bambini orfani o rimasti vittime di gravi abusi. Poco alla volta però hanno spostato il tiro su famiglie più ordinarie. Così nel 2018 l’American Academy of Pediatrics ha pubblicato una serie di raccomandazioni per avvertire dei pericoli di un’educazione dura. Esiste anche una rete di università americane che fanno questo tipo di ricerche condividendone i risultati.
David Bueno i Torrens, un biologo spagnolo specializzato in genetica e neuroscienze, direttore della prima cattedra di neuroeducazione, presso l’Università di Barcellona, spiega a El Pais che gli adolescenti che hanno subito con frequenza abusi verbali manifestano meno creatività e curiosità. Inoltre hanno una minore capacità di «acquisire nuove conoscenze e sono più inclini a provare tristezza e depressione».
Ad attivarsi sono sempre le stesse aree del cervello, ciò che cambia è il rapporto tra le differenti aree: «Con l’educazione negativa, l’amigdala cerebrale diventa più reattiva alle emozioni negative e l’area che gestisce le emozioni, il prefrontale, diventa meno capace di gestire l’ansia e lo stress», prosegue. La conseguenza è che quei minori, più apatici dei loro coetanei, faticano a trovare motivazioni. E nella loro ricerca di stimoli rischiano di cadere nell’uso di droghe.
Cosa succeda nel cervello di un minore quando viene punito lo descrive lo psicologo, dottore in pedagogia e autore Rafa Guerrero. Nel bimbo si attivano le aree inferiori del cervello, quelle che hanno a che fare con la sopravvivenza. Vengono così rilasciate grandi dosi di adrenalina e cortisolo, che stimolano l’azione e impediscono il pensiero.
In sostanza, la punizione è un invito cieco alla vendetta. «Essendo iperattivata quella parte della base cerebrale (istinti ed emozioni), risulta difficile connettersi con l’attico cerebrale (pensiero critico, ragionamento, funzioni esecutive, ecc.). Non possiamo essere consapevoli o pensare a quello che è successo, e obbediamo soltanto alla nostra parte più istintiva ed emotiva». Manca un vero apprendimento. Per questo sono indispensabili altre virtù, che si chiamano amore, rispetto, pazienza e gentilezza.
Dunque che fare? Se punire i figli gli fa più male che bene, come cercare di fargli capire le regole che cerchiamo faticosamente di insegnargli? La direzione in cui puntano le neuroscienze, spiega il neuropsicologo ed esperto in educazione Álvaro Bilbao, guarda a quel gruppo intermedio di genitori che non rinunciano a mettere paletti ben precisi nell’educazione dei loro figli aiutandoli però ad acquisire fiducia e autostima.
In altre parole, no ai classici genitori-gendarmi dalla mano pesante (convinti magari che chiudere in una stanza buia un bimbo di due anni possa rappresentare una salutare lezione). Ma no anche ai genitori assenti dalla mano evanescente, che non fissano mai confini in nome di un’indulgenza irresponsabile (e lasciano passare tutto perché tanto che male c’è?).
Anche i no fanno crescere. Ma devono essere appunto funzionali alla crescita del bambino, non devono mortificarla o arrestarla.
Tutte queste nuove acquisizioni delle neuroscienze sono entrate nel bagaglio della dottoressa Gueguen, la pediatra francese che menzionavamo all’inizio, che da cinque anni si occupa di formare professionisti dell’infanzia come medici, psicologi, educatori e ostetriche, e dirige un programma di diploma sul sostegno alla genitorialità alla Sorbona.
Per educare il figlio in un modo giusto, spiega la pediatra, servono empatia e gentilezza (anche con sé stessi), essere connessi con le proprie emozioni, saperle trasmettere e parlarne col proprio bambino.
I genitori che seguono queste regole d’oro sanno che «crescere un figlio è fonte di felicità, ma può anche essere estremamente difficile; che commetteranno errori e che vedere i tuoi genitori riconoscerli e scusarsi è molto educativo per il bambino». Quando i genitori sviluppano questa gentilezza verso sé stessi, riescono anche a trasmetterla ai loro figli e loro, a loro volta, «fioriscono», sottolinea Gueguen.
Da qui l’importanza, conclude l’esperta, di accompagnare genitori e educatori durante la loro vita e la loro professione.
Senza mai dimenticare che anche loro, genitori e educatori, sono esseri in carne e ossa che «hanno bisogno di essere capiti, non incolpati, e di sapere che prendersi cura di un minore può essere molto difficile e molto impegnativo, e che spesso commetteranno errori e avranno bisogno di un sostegno».
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