Un nuovo regolamento impone un nuovo obbligo a ristoranti e locali di una notissima località turistica. Cambia tutto, e non mancano le polemiche.
Se alcuni apprezzano la novità, altri hanno espresso invece le loro perplessità per una scelta che, anche se pensata per i turisti e la promozione dei prodotti locali, appare loro discutibile.
È noto che gli chef amano poco che gli si dica cosa mettere o non mettere nel piatto. Non stupisce dunque che abbia scatenato parecchie polemiche quanto accaduto a Portofino, la rinomata località turistica della Liguria tanto amata dai vip, per di più incastonata in uno scenario naturale da favola.
Ogni anno questa bellissima località balneare attira legioni di turisti. Immersa nell’atmosfera antica da borgo di pescatori della Riviera ligure, tra case color pastello, il porto, ristoranti specializzati in pesce e boutique esclusive, si affaccia sul porto dove sono attraccati lussuosi yacht. Dall’alto domina la suggestiva fortezza di Castello Brown, struttura che risale al XV secolo e sorge sul promontorio di Portofino.
Arriva il nuovo regolamento per i ristoranti: ecco cosa cambierà
Ma questa volta Portofino non è finita al centro delle cronache per vicende legate a personaggi dello spettacolo o della politica o per la prosperità dei suoi residenti (una recente classifica stilata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre ha collocato Portofino al terzo posto tra i comuni più ricchi d’Italia).
Un mese fa aveva fatto sollevare qualche sopracciglio l’ordinanza sul decoro che aveva introdotto diversi divieti sulla piazzetta, tra i quali il divieto di bivaccare, di sedersi per terra, di stazionare con bevande alcoliche. Ma anche il divieto di musica dopo la mezzanotte (a parte gli eventi comunali) e di girare a piedi scalzi (come aveva fatto Kim Kardashian circa un anno fa), a torso nudo o in costume da bagno.
Se allora era stato il regolamento per salvaguardare il decoro a far parlare di sé, a questo giro a far discutere è stato un altro regolamento comunale. Quello che mette direttamente le mani nei menù dei ristoranti, con obblighi accompagnati da multe. A suscitare critiche e levate di scudi è stato quello che Repubblica ha già battezzato come una forma di sovranismo alimentare. O meglio, il sovranismo servito a tavola.
Le polemiche nascono dalla decisione del sindaco di Portofino, Matteo Viacava. Il primo cittadino del comune ligure ha deciso infatti di obbligare ristoranti e locali a inserire nei propri menù almeno tre prodotti di origine certificata della Liguria. Stesso discorso per i vini: obbligo di inserire in menù almeno tre etichette appartenenti ad aziende agricole del posto.
“Sovranismo a tavola”? I perché di una svolta
Una “svolta sovranista” che nelle intenzioni dovrebbe rafforzare la presenza delle eccellenze regionali all’interno della ristorazione di Portofino, dove l’85% dei clienti è rappresentato da turisti stranieri.
La presenza di un numero minimo di prodotti locali è dunque da considerare una sorta di promozione all’estero per Portofino. Per far conoscere e apprezzare in tutto il mondo anche i prodotti e i piatti della Liguria, oltre che le bellezze del suo paesaggio. Una prospettiva condivisa a quanto pare anche dagli esercizi del posto. Al punto che, stando a quanto dice il sindaco, i ristoratori locali non hanno sollevato obiezioni.
Altri chef, dal nord al sud dello Stivale, qualche perplessità per il diktat in cucina invece l’hanno manifestata. Un obbligo sicuramente a fin di bene – anzi, a fin di buono – ma che ha fatto sollevare più di un dubbio. Non è mancato nemmeno chi ha ironizzato sul fatto che anche i ristoranti etnici dovranno far spazio a un mix di sushi e pesto (come del resto già fanno alcuni locali). Sì, perché l’obbligo di segnalazione delle tipicità locali riguarda anche loro.
Obbligo di prodotti tipici nel menù: chi è d’accordo e chi no
La tipicità e il “made in Liguria” imposti per legge non piacciono a tutti e sono fioccate le critiche in nome della “libera cucina in libera Liguria”. Va bene insomma la tradizione a tavola, ma non al punto di imbrigliare la creatività culinaria. Questo sembra essere il filo rosso che lega tante critiche. Un conto è promuovere i prodotti locali, un altro è imporli per regolamento a esercizi privati.
Anche se va detto che non manca nemmeno, tra gli chef interpellati da Repubblica, chi plaude all’iniziativa del comune ligure o ne evidenzia gli effetti positivi per i prodotti del territorio pur ritenendola un poco “azzardata”, c’è da chiedersi se un simile interventismo non sia esagerato.
Perché a questo punto potremmo anche obbligare i negozi di vestiti a vendere per forza abbigliamenti e calzature prodotti sul suolo ligure. E perché non imporre una quota minima di autori liguri alle librerie del posto? Una “quota ligure” un po’ dappertutto? Uno scenario che non pare particolarmente esaltante.
Settore agroalimentare in Liguria: un comparto di nicchia che vuole crescere
D’altro canto appare fortemente sentita in Liguria la necessità di aumentare la forza del proprio settore agroalimentare, al momento ancora ben lontana da quella di regioni come il Veneto che può contare sui 100 mila ettari di superficie coltivabile contro i 2 mila della Liguria. Da solo il Veneto produce prodotti Dop e Igp per un valore di 4,3 miliardi (una quota corposa dei 19,1 miliardi complessivi a livello nazionale), mentre la Liguria è ferma a 38 milioni di euro.
In sostanza la produzione ligure è una produzione di élite, dove prevalente è la qualità più che la quantità. Una qualità che si concentra soprattutto nell’olio e nel basilico (cibi Dop) e in prodotti Igp (focaccia di Recco, acciughe sotto sale del Mar Ligure e pure il vitellone piemontese della Coscia, prodotto anche in alcuni comuni in provincia di Imperia e Savona).
Le prospettive di crescita della capacità di produzione ligure
Anche se decisamente distante dalla forza trainante dell’agroalimentare in altre regioni, il comparto del cibo sta crescendo in Liguria: tra il 2020 e il 2021 il valore è aumentato del 19,3%, e quello del vino perfino di due terzi. Insomma, si punta a rafforzare e ampliare questo settore, come confida al Secolo XIX l’assessore regionale all’Agricoltura, Alessandro Piana. «In epoca pre-industriale questa regione aveva 40 mila ettari di aree coltivabili, oggi sono 2.000: quindi ci sono gli spazi per poter recuperare almeno una parte di quei livelli. Per esempio oggi ci sono 1,5 milioni di ulivi non coltivati, e noi puntiamo molto su politiche e incentivi per l’avvio di nuove imprese nel settore».
Appare chiaro che una spinta anche dall’estero, grazie alla pubblicità delle eccellenze locali, potrebbe dare una grande mano in tal senso. Resta da vedere se il dirigismo a suon di obblighi e regolamenti comunali sia la via più opportuna da seguire.