Per accedere alla pensione c’è un piccolo dettaglio che può fare tutta la differenza del mondo. Ha a che fare con una data precisa.
Prima o dopo a quella data le cose cambiano notevolmente per chi alla fine della sua carriera vorrà godersi, finalmente, l’assegno pensionistico. Ma una categoria di lavoratori parte nettamente svantaggiata sotto questo punto di vista. Ecco di chi si tratta.
In Italia fino al 1995 vigeva il sistema retributivo mentre dal 1996 è entrato in vigore, per tutti i lavoratori che hanno cominciato a lavorare da quella data, il sistema contributivo. A parità di condizioni e di anni lavorati, i due diversi sistemi di calcolo danno luogo a due differenti importi dell’assegno pensionistico.
La differenza più rilevante tra il regime contributivo e quello retributivo consiste nel fatto che il primo è basato su tutti gli anni di contribuzione realmente maturati dal lavoratore, applicando dei coefficienti di trasformazione alla somma degli anni lavorati. In modo da non incentivare un’uscita dal mondo del lavoro a un’età troppo giovane.
Ben diversi invece i principi su cui si basa il secondo regime, quello retributivo. In questo sistema il calcolo avviene sulla base della media delle settimane lavorative, considerando soltanto un ben preciso periodo di riferimento della vita professionale del lavoratore, ovvero gli ultimi anni della sua carriera lavorativa.
Pensione, quali sono gli svantaggi di essere un contributivo puro
Si dice di solito che il regime contributivo penalizzi le pensioni sul piano economico, ossia a livello dell’assegno pensionistico. E nulla è più vero, dato che il contributivo tiene conto soltanto dei contributi effettivamente versati nel corso della carriera lavorativa. Ben altro discorso invece per il regime retributivo, il calcolo del quale premiava di più la maggiore retribuzione incassata negli ultimi anni di lavoro.
Ma non è tutto: gli effetti del regime contributivo si fanno sentire anche sulla data in cui sarà possibile godersi la meritata pensione, oltre che sulla possibilità di usufruire di determinate tutele. Infatti per i cosiddetti contributivi puri – cioè per chi ha cominciato a versare contributi dopo il 1° gennaio 1996 – valgono regole diverse per poter andare in pensione. Oltre a vedersi precluso l’accesso all’integrazione al trattamento minimo: quello strumento che aumenta l’importo della pensione se questo è inferiore alla soglia minima fissata ogni anno.
In questo caso a fare tutta la differenza del mondo potrebbe essere un solo contributo settimanale. Uno soltanto: un “dettaglio” non da poco che potrebbe cambiare tutto nella lunga strada che porta all’assegno pensionistico.
Quota 41, in cosa consiste e chi può accedere a questa possibilità
Dunque, come abbiamo visto nella categoria dei contributivi puri rientrano tutti i lavoratori che non hanno versato neanche un contributo settimanale entro la data del 31 dicembre 1995. La classica data da segnare in rosso sul calendario. Sarebbe bastato infatti un solo contributo per poter accedere alla pensione con 41 anni di contributi versati. Una possibilità invece negata ai contributivi puri.
È quanto consente lo strumento chiamato Quota 41 – nelle intenzioni dell’esecutivo a quanto pare ci sarebbe quella di estenderlo a tutti – che permette di poter andare in pensione con soltanto 41 anni di contributi, senza guardare all’età anagrafica.
Quota 41 è riservata soltanto ai cosiddetti lavoratori precoci, ovvero tutti i lavoratori che hanno maturato 12 mesi di contributi entro il compimento dei 19 anni. Altra condizione per beneficiare di Quota 41 è rientrare in una di queste categorie di lavoratori meritevoli di una maggiore tutela:
- Disoccupati di lungo periodo;
- Invalidi (almeno al 74%);
- Caregiver;
- Lavoratori gravosi.
Quota 41: perché i contributivi puri sono tagliati fuori
Come detto però Quota 41 richiede di aver versato almeno un contributo entro la data del 31 dicembre 1995. Tagliando così fuori i contributivi puri, esclusi anche dalla possibilità di ottenere la pensione di vecchiaia con 15 anni di contributi invece dei 20 solitamente necessari.
Infatti la terza deroga Amato permette a chi ha almeno 25 anni di anzianità assicurativa di andare in pensione a 67 anni e con 15 anni di contributi versati (e almeno 10 anni devono essere lavorati per periodi inferiori alle 52 settimane). Ma anche la terza deroga Amato chiede che almeno un contributo settimanale sia stato versato in regime retributivo. Dunque non oltre il 31 dicembre 1995.
È vero che anche i contributivi puri possono accedere alla pensione di vecchiaia a 67 anni di età. Ma questi ultimi devono soddisfare un’ulteriore condizione che potrebbe complicare parecchio le cose. Ovvero bisogna che l’assegno maturato al momento di andare in pensione sia pari almeno a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale. Tradotto nelle cifre aggiornate al 2023, questo significa che occorrerà aver messo insieme una pensione annuale almeno di 9.813,76 euro.
Pensione: i contributivi puri penalizzati due volte
Possiamo dire dunque che sui contributivi puri piove in un certo senso sul bagnato, penalizzati due volte come sono. Non solo sono penalizzati dal regime di calcolo del contributivo che li svantaggia con pensioni più basse di quelle di cui avrebbero goduto col calcolo retributivo. Si vedono anche escludere dalla possibilità di poter usufruire dell’integrazione al trattamento minimo.
Per essere molto concreti: chi, con una pensione inferiore ai 563,74 euro (il minimo stabilito dalla legge per il 2023), avrà maturato almeno un contributo settimanale entro il 31 dicembre 1995 avrà diritto – nel caso in cui soddisfi i requisiti – all’integrazione per arrivare alla soglia minima.
Viceversa, chi non ha versato alcun contributo prima del 31 dicembre 1995 non avrà alcun diritto al trattamento minimo. Il che vuol dire che se, per esempio, avesse maturato soltanto 350 euro di pensione dovrà campare solamente con quelli: l’importo rimarrà quello e quello soltanto.