Dal rapporto annuale dell’Inps emergono alcune “sorprese”, con particolare riferimento al rapporto tra lavoro svolto e aspettativa di vita.
Il lavoro allunga la vita? Si direbbe di no, stando a una recente decisione dell’Inps. Non almeno quello più gravoso e usurante. A quanto pare, la longevità è inversamente proporzionale alla consistenza della busta paga, oltre che alla fatica fisica che l’occupazione svolta comporta. Vediamo nel dettaglio cosa dice il XXII rapporto annuale dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, fresco di stampa e di presentazione alla Camera dei Deputati. E immediatamente finito sotto i riflettori dei media per alcune “sorprese” che contiene.
lnnanzi tutto l’Inps segnala nel suo rapporto che il tasso di occupazione in Italia è attualmente al 61%, un massimo storico mai raggiunto prima d’ora. Il dato restituisce la fotografia di un’Italia più attiva nel mondo del lavoro, ma ancora segnata da grandi disparità tra lavoratori ricchi e lavoratori più poveri, tra donne e uomini e tra Nord e Sud. In particolare, la forza lavoro femminile ha dato un contributo fondamentale al recupero post-pandemico. Il 57,4% di tasso di attività ad aprile 2023 supera quello pre-pandemia e lo stesso vale per il tasso di occupazione, oggi pari al 52,3%. Mentre ad aprile scorso il tasso di disoccupazione italiano era pari al 7,8%. Ma la vera novità è un’altra…
Lunga vita ai dirigenti (con buona pace degli operai)
La stessa Inps frena però subito gli entusiasmi. Il tasso di occupazione italiano è ancora di gran lunga inferiore alla media dei paesi Ue (pari al 69,5% nel terzo trimestre 2022) e in particolare a quello di Francia (68%), Germania (77%) e Spagna (64%). C’è stato un miglioramento nella qualità dell’occupazione, con il lavoro dipendente che rappresenta il 78% del totale, e un aumento dei contratti a tempo indeterminato. Ma lo scenario nazionale del mercato del lavoro resta complesso, con un declino costante nell’occupazione autonoma e mercate differenze tra Nord e Sud.
Tutto ciò premesso, il dato che maggiormente balza all’occhio riguarda la speranza di vita dei lavoratori. Quella a 67 anni di un ex dipendente nel primo quinto della distribuzione (dunque più povero) risulta di quasi 5 anni inferiore a quella di un ex dirigente di impresa nel quinto più alto. “Per le donne le differenze sono minori, ma comunque importanti“, sottolinea l’Inps nel rapporto. “Una residente in Campania nel primo quinto della distribuzione del reddito ha una speranza di vita di quasi 4 anni inferiore ad una residente in Trentino-Alto Adige con reddito nel quinto più alto“. E i dati dicono che i dipendenti privati poveri, con una retribuzione inferiore al 60% della mediana, a ottobre 2022 erano 871.800, pari al 6,3% della platea di riferimento.
Il motivo di tali disparità? Secondo l’Inps, la presenza di differenze così significative è problematica dal punto di vista dell’equità e della solidarietà. L’attuale sistema previdenziale, infatti, applica al montante contributivo un tasso di trasformazione indifferenziato, che presuppone speranza di vita indifferenziata. E – si legge ancora nel rapporto – il non tener conto del fatto che i meno abbienti hanno una speranza di vita inferiore alla media risulta inevitabilmente nell’erogazione di una prestazione meno che equa, a vantaggio dei più abbienti.
Come cambia la speranza di vita in funzione del reddito
L’Inps sottolinea che la differenza nella speranza di vita è di cinque anni tra chi era nel Fondo lavoratori dipendenti nel primo “quintile” di reddito (16 anni di speranza di vita) e chi era nel “quintile” di reddito dal Fondo dirigenti (Inpdai) con 20,9 anni. Queste differenze si scontrano con l’utilizzo di un coefficiente di trasformazione unico per il calcolo della pensione. Coefficiente che risulta fortemente penalizzante per i soggetti meno abbienti, il cui montante contributivo si traduce in una pensione più bassa di quella che otterrebbero se si tenesse conto della loro effettiva speranza di vita. Per i più abbienti vale il discorso opposto: ottengono pensioni più elevate di quelle che risulterebbero da tassi che tengano conto dell’effettiva durata media della loro vita.
Entrando nei dettagli del rapporto dell’Inps si scopre che i pensionati che percepiscono un assegno più alto vivono in media 2,6 anni in più rispetto a coloro che ne ricevono uno più basso. E gli uomini che appartengono alla fascia di reddito più alta hanno una speranza di vita a 67 anni di circa 2,6 anni superiore rispetto ai pensionati che appartengono a quella più bassa. Per le donne i divari sono minori, ma comunque significativi: quello tra l’ultima e la prima fascia è di 1,7 anni.
Il confronto tra uomini e donne
Tra gli uomini, il gruppo più longevo risulta è quello dei pensionati delle gestioni InpdaI, Volo e Telefonici, che hanno un’aspettativa di vita di due anni superiore a quella dei lavoratori dipendenti (Fpld). Tra le donne, invece, l’aspettativa di vita più lunga è quella delle pensionate liquidate in regime di totalizzazione e cumulo. Si rileva comunque una notevole eterogeneità nella speranza di vita non solo fra gestioni, ma anche all’interno di una stessa gestione. A tal proposito, va rimarcato che nel divario tra il primo e l’ultimo “quintile” di reddito non si registrano grandi differenze tra gestioni, per cui il divario è di 2,6-2,7 anni per i maschi, qualunque sia la gestione, e di 1,7-1,8 anni per le femmine.