Perché al risveglio spesso non ci ricordiamo di quello che abbiamo sognato? E qual è la durata di un sogno? Ecco cosa dice la scienza.
Un tempo – fino a metà dello scorso secolo – era convinzione comune che non si sognasse tutta la notte. Si credeva che i sogni ci tenessero compagnia soltanto durante il sonno REM. In altri termini, si pensava che il sogno fosse limitato a un ben preciso momento.
Da diverso tempo però gli studi hanno sfatato questa convinzione. Alcune ricerche l’hanno ormai ridimensionata mostrando come anche le altre fasi del riposo notturno diano ospitalità ai sogni. Ha preso così piede una nuova consapevolezza che ha esteso e arricchito la definizione di sogno, allargata a quella di attività mentale nel corso di tutto il sonno.
Quand’è che si sogna di meno? Secondo gli esperti di medicina del sonno, quando ci priviamo di ore di riposo (per qualunque motivo: divertimento, lavoro, necessità) si riducono le parti del sonno in cui sogniamo. E conseguentemente si modifica anche la nostra capacità di ricordare i sogni.
Il legame tra sonno e sogno: gli Antichi avevano già capito (quasi) tutto
La profondità del legame tra sonno e sogno è un patrimonio comune della saggezza più antica. Per gli antichi Greci i sogni erano figli del sonno. Associavano la comparsa dei sogni all’intervento del dio Morfeo, figlio di Hypnos, dio del sonno (e fratello di Thanatos, dio della morte), e di Nyx, la dea della notte.
Secondo Esiodo, Morfeo aveva anche due fratelli: Fobetore e Fantaso, che popolavano i sogni rispettivamente con figure di animali (Fobetore) e di paesaggi, case, cose inanimate (Fantaso). Morfeo invece quando appariva di notte assumeva le forme delle persone o delle cose sognate. Mentre nell’Iliade e nell‘Odissea troviamo Oniro, divinità che personificava il sogno riunendo in sé i poteri dei tre figli di Hypnos (che i Romani chiamavano Somnus).
Possiamo dire che questa definizione antica è sopravvissuta ai secoli. Il legame indiscusso tra sonno e sogno è stato confermato anche dalle scoperte della scienza moderne. Due scienziati americani (Eugene Aserinsky e Nathaniel Kleitman) nel 1953 scoprirono infatti che gli esseri umani non vivono soltanto le due dimensioni del sonno e della veglia.
Alla scoperta del sonno REM
C’è anche un’altra dimensione: quella detta del sonno REM (che sta per Rapid Eye Movement, ovvero «movimento oculare rapido»). Durante questa fase l’organismo umano non si limita soltanto a dormire: svolge anche diverse altre attività. Come l’attivazione del cervello, l’annullamento del tono muscolare, il movimento rapido dei bulbi oculari, la variazione del battito cardiaco, la frequenza respiratoria, ecc. Oltre naturalmente a sognare.
Da qui a comprendere che proprio nella fase REM la mente umana elabora i contenuti fantastici il passo è stato breve. È stato sufficiente risvegliare alcuni volontari proprio durante il sonno REM chiedendo poi loro cosa avessero sognato. Nel 90% dei casi le risposte si traducevano in resoconti ricchi di dettagli, particolari, sensazioni e personaggi che animavano le trame di storie avvincenti e bizzarre, con una loro logica però.
Cosa succedeva coi resoconti del sonno non-REM
Diversamente accadeva quando gli stessi partecipanti all’esperimento si vedevano destare nel corso di altre fasi del sonno (le cosiddette fasi classificate come non-REM). In questi casi i ricordi dei sogni presentavano una frequenza nettamente inferiore, che si aggirava intorno al 15%. Così si impose l’idea che si sognasse soltanto durante il sonno REM.
Ma questa convinzione si rivelò sbagliata. Infatti a distanza di pochi anni bastò modificare il modo di intervistare al risveglio i partecipanti per ottenere pure da loro racconti di sogni anche nella fase non-REM. Semplicemente cambiando la formulazione della domanda (chiedendo ad esempio al volontario «cosa ti passava per la mente» prima del risveglio invece di «cosa stavi sognando») i ricercatori si sono accorti che la percentuale di resoconti onirici aumentava decisamente, salendo al 50% nel caso dei risvegli nella fase di sonno non-REM, specialmente nella seconda parte del riposo notturno.
Le scoperte più recenti sui sogni: ecco quando li ricordiamo di più (o di meno) al risveglio
Questi risultati hanno consentito di accantonare il precedente dualismo tra sonno REM (fase del sogno) e sonno non-REM (fase di non-sogno). Così ci si è orientati verso la proposta di una continuità nel sogno durante la totalità del riposo notturno. Perciò i sogni che ricordiamo quando ci svegliamo al mattino sarebbero soltanto una piccola porzione di una grande e intensa quantità di attività cerebrale che ha luogo quando riposiamo di notte.
Il fatto di ricordare i sogni quando ci svegliamo al mattino è dovuto al fatto che, se non abbiamo urgenze particolari da affrontare subito dopo esserci risvegliati, riusciamo a trovare tempo e concentrazione per recuperare frammenti di attività mentale della fase precedente il risveglio. Se nel cuore della notte un rumore improvviso avesse bruscamente interrotto il nostro riposo, con ogni probabilità al risveglio avremmo ricordato sogni in quantità ancor più corposa.
In sostanza, i ricercatori confermano che il sogno è una parte fondamentale del nostro riposo notturno. Sono generati dall’attività mentale nel corso di tutti gli stadi e i cicli del sonno. Tuttavia è cosa nota che quando dormiamo a casa nostra e ci risvegliamo in maniera spontanea ricordiamo meno i sogni (in media uno ogni due giorni), a prescindere dal fatto di essere più o meno introspettivi.
Sogni, perché riusciamo a rievocarli così poco
A cosa è dovuto l’enorme divario tra la sostanziosa attività onirica e lo scarno numero di racconti di sogni che riusciamo a produrre al risveglio mattutino? Gli esperti spiegano questa vistosa sproporzione con la complessità dei processi mnemonici dove i sogni sono stati “depositati” nel corso del riposo notturno. La memoria dunque non facilita il recupero dei sogni.
Ma anche altri fattori incidono sul ricordo dei sogni. Come ad esempio le caratteristiche del sonno, la nostra motivazione a far riaffiorare i sogni alla mente, la nostra predisposizione individuale. Sembra che molti microrisvegli (che durano dieci secondi o qualcosa di più) possano facilitare il ricordo dei sogni quando ci si sveglia la mattina seguente.
In altre occasioni invece si fatica molto di più a rievocare i sogni. Ad esempio quando dormiamo per recuperare le ore di sonno che avevamo perduto la sera precedente. Magari per via di un turno lavorativo o per il tempo passato a guardare lo smartphone. In casi come questi la nostra capacità di ricordare i sogni può diminuire di molto, anche fino al 75%.
Ma si fa fatica a ricordare i sogni anche quando si soffre, ad esempio, della sindrome delle gambe senza riposo. È il disturbo neurologico contraddistinto da una sensazione di irrequietezza a una o a tutte due le gambe. Un fastidio che genera l’impellente bisogno di muoverle. Con ogni probabilità la difficoltà a ricordare i sogni è legata ai microrisvegli troppo brevi provocati da questo disturbo (che colpisce soprattutto le donne e spesso si associa anche all’insonnia).
Come si modifica il sonno quando riposiamo poco
Infatti per compensare una mancanza di riposo, il panorama del sonno muta. Se nella prima notte seguente aumenta il sonno non-REM, cala invece quello REM. Così i microrisvegli diminuiscono di numero rispetto a quelli abitualmente registrati durante un riposo normale.
Di conseguenza la nostra memoria a lungo termine archivia un quantitativo minore di sogni. Perciò saranno poche le piccole “code “oniriche che si presenteranno al mattino nella memoria a breve termine e alle quali potremo “agganciarci”, un’immagine dopo l’altra, per cercare di ricostruire tutta la trama del sogno notturno. Quindi c’è uno stretto collegamento tra la durata di un sogno (quanto si sogna) e la fase del sogno (quando si sogna).