Cibo e salute mentale: una ricerca mette in guardia contro il consumo di alcuni alimenti che potrebbero fare male anche alla psiche.
Per questo sarebbe meglio evitare accuratamente di consumare questi cibi. Ecco a quali conclusioni sono arrivati gli scienziati.
Da tempo sono finiti sul banco degli imputati. Parliamo dei cibi “ultraprocessati”: alimenti saporiti e piacevoli al palato, dalla preparazione facile e veloce e a lunga conservazione. Sotto questa etichetta ricadono tutti quei prodotti confezionati poveri sotto il profilo nutrizionale e molto ricchi invece sotto quello energetico, pronti a essere riscaldati o al consumo diretto, immessi sul mercato dopo ripetute lavorazioni industriali.
I cibi ultraprocessati sono chiamati in questa maniera per via del loro alto contenuto di ingredienti aggiunti (come zucchero, sale, coloranti, additivi) e perché spesso vengono prodotti elaborando sostanze (amidi, grassi, ecc.) estratte da alimenti più semplici.
In questa categoria rientrano gli snack confezionati (salati o dolci), le bevande zuccherate, i prodotti venduti nei fast-food, diversi piatti pronti surgelati. A volte sono processati anche i cracker, i cereali da colazione, gli yogurt dolci alla frutta. In altre parole, si tratta del famigerato “junk food”, il cibo spazzatura che troppo spesso finiamo per portare sulle nostre tavole.
Cibi ultraprocessati, perché impattano negativamente sulla nostra salute
In Usa, dove in media circa il 57% delle calorie consumate dagli adulti proviene dai cibi ultraprocessati, il loro consumo è in costante aumento. Ma nell’agosto del 2002 un articolo del British Medical Journal ha puntato il dito contro il consumo eccessivo di questi alimenti, che negli uomini (nelle donne però questa correlazione non è stata rilevata) farebbe aumentare del 30% il rischio di tumore al colon. È quanto risulta da una ricerca che ha coinvolto poco meno di 300 mila persone negli Stati Uniti, monitorate per almeno vent’anni. Recenti studi mostrano anche che i cibi ultraprocessati accelerano l’invecchiamento cellulare.
Si tratta di un problema non limitato agli Usa, ma che riguarda anche l’Italia dove il consumo di questi prodotti comincia a essere sempre più diffuso. Si stima che nel 2017 più di 10 milioni di persone siano morte a causa di una cattiva alimentazione. Oltre al loro basso profilo nutrizionale questi alimenti ultralavorati contengono al loro interno additivi, emulsionanti, zuccheri artificiali e altre sostanze che hanno un alto potere infiammatorio. Senza contare che durante la lavorazione o il riscaldamento dei cibi ultraprocessati si possono generare sostanze potenzialmente cancerogene, come ad esempio nitrosamine o acrilamide.
Resta ancora molto da scoprire comunque sui meccanismi collegati ai rischi per la salute derivanti dal consumo di alimenti ultralavorati. Le evidenze sono comunque già numerose e da sole bastano a suggerire se non di evitare, quantomeno a ridurne fortemente il consumo. Non è sempre facile riconoscere la loro presenza, ma la lettura dell’etichetta della confezione può aiutare in tal senso. In un cibo non processato generalmente l’unico ingrediente è rappresentato dall’alimento stesso (mela o carota ad esempio). Quando invece l’elenco degli ingredienti si allunga si innalza anche il rischio che il cibo sia stato processato o ultraprocessato.
Consumare cibo spazzatura: fa male anche alla salute mentale
Ma mangiare cibi ultraprocessati non comporta solo rischi legati alla salute fisica. A quanto pare ci sono anche pericoli per la salute mentale. È quanto emerge da un’analisi dei dati del Melbourne Collaborative Cohort Study che ha mostrato come chi consumava una grande quantità di cibo ultraprocessato aveva una maggiore probabilità di manifestare disagio psicologico, un indicatore di depressione, a distanza di oltre un decennio.
Lo studio, intitolato “High ultra-processed food consumption is associated with elevated psychological distress as an indicator of depression in adults from the Melbourne Collaborative Cohort Study” (“L’alto consumo di cibo ultraprocessato è associato a un elevato disagio psicologico come indicatore di depressione negli adulti dal Melbourne Collaborative Cohort Study”) è apparso sul Journal of Affective Disorders il 15 agosto 2023. Gli autori dello studio sono Melissa M. Lane, Mojtaba Lotfaliany, Allison M. Hodge, Adrienne O’ Neil, Nikolaj Travica, Felice N. Jacka, Tetyana Rocks, Priscila Machado, Malcolm Forbes, Deborah N. Ashtree e Wolfgang Marx.
Depressione, che legame c’è con una cattiva dieta alimentare
Come sappiamo, la depressione consiste in un disturbo dell’umore caratterizzato da persistenti sentimenti di tristezza, disperazione e mancanza di interesse o piacere nelle attività. Spesso chi soffre di questo disturbo va incontro a cambiamenti nell’appetito, nel sonno, nei livelli di energia e nella concentrazione.
Le persone che soffrono di depressione possono sperimentare anche sintomi fisici come l’affaticamento, ma anche sintomi cognitivi come una percezione di sé molto negativa e avere difficoltà a prendere decisioni. Si tratta di uno dei disturbi mentali più frequenti in tutto il mondo.
Sono numerosi i fattori che contribuiscono ad aggravare i sintomi della depressione, ma in tempi più recenti i ricercatori si sono concentrati particolarmente sul possibile collegamento tra una dieta di scarsa qualità e la depressione. Se questa correlazione dovesse trovare conferma, la scoperta risulterebbe particolarmente significativa per la cura della depressione. Questo perché la dieta è un fattore che può essere modificato più facilmente rispetto a molti altri predittori della depressione.
Spesso la ricerca si è concentrata sul legame tra cibi ultraprocessati e i problemi di salute mentale, rilevando una relazione che appare essere bidirezionale. Come ricordato, i cibi ultraprocessati sono prodotti fabbricati industrialmente e pesantemente trasformati che spesso al loro interno contengono additivi, aromi artificiali e alti livelli di zuccheri, grassi e sale, e che forniscono un limitato valore nutrizionale.
La ricerca australiana sul legame tra dieta e salute mentale
L’autrice dello studio Melissa M. Lane e i suoi colleghi erano interessati a sapere se il consumo di cibi ultraprocessati nelle prime fasi della vita, tra i 13 e i 17 anni, fosse collegato alla depressione sviluppata più avanti nell’arco della vita. Perciò hanno analizzato i dati del Melbourne Collaborative Cohort Study, uno studio longitudinale australiano che si prefigge di indagare i collegamenti tra lo stile di vita e le malattie croniche non trasmissibili.
I ricercatori australiani hanno fatto notare che le ricerche precedenti non sono state in grado di arrivare a conclusioni definitive sul legame tra la cattiva salute mentale e il consumo di cibi ultraprocessati. Una difficoltà derivata dal fatto che da un Paese all’altro il consumo di questi cibi è molto variabile. Ad esempio nei Paesi del Mediterraneo meno del 10% delle calorie assunte deriva in media da questi alimenti. Invece in Paesi come Australia, Stati Uniti, Regno Unito e Canada la percentuale di calorie tratte dagli alimenti ultralavorati supera il 40%.
Uno studio a lungo termine su decine di migliaia di partecipanti
Lo studio di Melbourne riesce a ridurre l’impatto di questa differenza includendo un’ampia percentuale (30%) di immigrati provenienti dall’Europa meridionale (cioè dal Mediterraneo). Come previsto le preferenze dietetiche di questi soggetti si rivelano molto differenti da quelle dei partecipanti alla ricerca nati in Australia e Nuova Zelanda. Si tratta di uno studio anche longitudinale che ha permesso ai ricercatori di osservare e tenere sotto controllo i collegamenti tra i fattori studiati nel corso degli anni.
Gli esperti hanno analizzato così i dati di 23.299 partecipanti (13.876 donne) di età compresa tra 27 e 76 anni, escludendo i profili non idonei all’analisi. Lo studio conteneva al suo interno una intenzionale sovrarappresentazione di immigrati provenienti dall’Europa meridionale, in modo da consentire un migliore confronto delle abitudini alimentari tra loro e i partecipanti australiani.
I dati sulle abitudini alimentari dei partecipanti sono stati raccolti attraverso un questionario elaborato per questo studio (il questionario sulla frequenza alimentare di 121 voci) all’inizio dell’indagine, tra il 1990 e il 1994. I ricercatori hanno anche utilizzato dati sul disagio psicologico dei partecipanti (la Kessler Psychological Distress Scale, una misura clinica del disagio psicologico) da loro considerati un indicatore di depressione.
Questa valutazione chiedeva al partecipante di riferire su sintomi come stanchezza, disperazione, nervosismo, tristezza e inutilità. Tutti i partecipanti allo studio hanno poi completato la valutazione del disagio psicologico tra il 2003 e il 2007, cioè più di un decennio più tardi.
Cibi ultraprocessati e non, ecco quali sono
I prodotti alimentari sono stati classificati in due categorie: cibi ultraprocessati e cibi non ultraprocessati.
Tra i cibi ultraprocessati erano inclusi prodotti come
- Bevande analcoliche;
- Snack confezionati dolci o salati;
- Dolciumi;
- Pane confezionato;
- Margarina;
- Prodotti a base di carne ricostituita;
- Piatti pre-preparati surgelati o a lunga conservazione.
I cibi non ultraprocessati invece comprendevano:
- Riso;
- Cereali;
- Carne;
- Pesce;
- Latte;
- Uova;
- Frutta;
- Radici e tuberi;
- Verdure;
- Noci e semi;
- Ingredienti culinari come zucchero e oli vegetali e alimenti trasformati come pane, formaggio, frutta in scatola e pesce e carni salate e affumicate.
I risultati dello studio di Melbourne
Dai risultati dello studio è emerso che i partecipanti più inclini a consumare cibi ultraprocessati erano quelli che avevano più probabilità di essere nati in Australia e Nuova Zelanda e di vivere da soli. Ma anche quelli con minore probabilità di avere un’istruzione universitaria, di essere sposati o di essere impegnati in una relazione sentimentale e di impegnarsi in alti livelli di attività fisica. Tutti questi soggetti presentavano anche un minore apporto di proteine, fibre e grassi saturi e un minore apporto energetico totale. Consumavano meno frutta e verdura degli altri.
Inoltre i partecipanti coi più alti livelli di consumo di alimenti ultraprocessati (una quota pari al 25% di quelli che presentavano i livelli più alti di consumo di cibi ultraprocessati) avevano una probabilità maggiore del 14% di sviluppare disagio psicologico rispetto a quelli che rientravano nel 25% che faceva rilevare il tasso più basso di consumo di alimenti ultraprocessati. Successive analisi hanno fatto poi rilevare che solo i partecipanti del gruppo col consumo più elevato di questi cibi presentavano livelli di disagio psicologico elevati rispetto agli altri partecipanti.
Per capirne di più serviranno altri studi
Gli autori dello studio sulla coorte basato su 23.299 partecipanti di Melbourne hanno concluso che «un maggiore consumo di cibo ultraprocessato all’inizio era associato a un elevato disagio psicologico, come indicatore di depressione, al follow-up a 15 anni di distanza».
Tuttavia questa associazione, spiegano gli esperti, «era evidente solo tra i partecipanti con un consumo molto elevato di alimenti ultraprocessati; cioè quelli nel quartile più alto». Saranno perciò necessari ulteriori studi prospettici. Questo per identificare meglio le caratteristiche dannose dei cibi ultraprocessati e per elaborare strategie relative alla nutrizione e di sanità pubblica per la salute mentale.
Questo studio proietta dunque una nuova luce sul legame tra l’apporto della dieta e la salute mentale. Bisogna però sottolineare che l’impostazione della ricerca non permette di trarre conclusioni di causa-effetto. Inoltre, la valutazione del disagio psicologico richiedeva di fornire solo informazioni sui sintomi legati alla depressione e all’ansia nei 30 giorni che precedevano l’indagine. Mentre la valutazione dell’assunzione alimentare si basava soltanto sui ricordi dei partecipanti sulle loro tipiche abitudini alimentari dei 12 mesi precedenti.