La ricerca per sconfiggere il Parkinson fa progressi da gigante: la svolta passa per qualcosa di piccolissimo attraverso i nostri stessi occhi!
Chi conosce anche solo indirettamente il Parkinson sa quanto sia devastante questa malattia neurodegenerativa che colpisce milioni di persone da un capo all’altro del mondo. Chi ne soffre vede irrimediabilmente compromessa la funzionalità motoria, con un conseguente drastico peggioramento della qualità della vita. Ancora purtroppo siamo lungi dall’aver trovato una cura capace di sconfiggere definitivamente questa patologia, ma c’è una nuova, rivoluzionaria prospettiva sul piano della diagnosi precoce.
La novità più interessante sta nella scoperta di un singolare alleato nella prevenzione dell’Alzheimer: i nostri occhi. Alcuni recenti studi hanno infatti messo in rilievo una possibile correlazione tra l’anatomia della retina e il rischio di sviluppare il Parkinson. Si tratta di una scoperta che potrebbe rivoluzionare il modo in cui si identifica e si affronta questa grave condizione. E aprire la strada a un’innovazione sul piano delle diagnosi preventive e, dunque, a trattamenti più tempestivi ed efficaci.
Il nesso segreto tra retina e malattia di Parkinson
Ad accendere i riflettori dei media internazionali è un recente studio pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Neurology. Un’équipe di ricercatori ha preso in esame i dati oftalmici provenienti da due ricchissimi database: l’AlzEye e l’UK Biobank. Più nel dettaglio, l’AlzEye ha setacciato i profili di oltre 150.000 individui di età superiore ai 40 anni che si erano sottoposti a scansioni oculari in un ospedale di Londra nel periodo 2008-2018.
L’UK Biobank, invece, è uno dei più vasti database biomedici del Regno Unito: raccoglie le informazioni relative a 67.000 volontari di età compresa tra 40 e 69 anni che hanno eseguito scansioni retiniche tra il 2006 e il 2010. Cosa ha suscitato tanto interesse nella comunità medica e scientifica?
L’obiettivo principale dello studio in questione è stato quello di individuare eventuali anomalie nella retina in qualche modo associabili al morbo di Parkinson. Nello specifico, i ricercatori si sono concentrati sullo strato nucleare interno (INL) e sullo strato plessiforme interno delle cellule gangliari (GCIPL). Ed è qui che è arrivata la sorprendente scoperta: il ridotto spessore di questi strati è a quanto pare correlato al rischio di sviluppare il Parkinson. I soggetti che presentavano uno spessore ridotto di questi strati retinici hanno mostrato infatti un aumento dal 62% al 70% del rischio di contrarre la malattia.
I ricercatori sono stati in grado di identificare queste correlazioni grazie all’impiego di strumenti di scansione oculare avanzati, come la tomografia ottica computerizzata (OCT). Una tecnologia, quest’ultima, che in origine veniva utilizzata per diagnosticare patologie oculari come il glaucoma e la degenerazione maculare, ma ora può aprire nuove promettenti frontiere nella rilevazione di malattie neurodegenerative, come appunto il Parkinson. L’oculomica – questo il nome del campo di studi emergente – sta anche esplorando la possibilità di predire altre condizioni, come il diabete e varie malattie cardiovascolari, attraverso l’analisi degli occhi.
Una possibile rivoluzione per i malati di Parkinson
Stiamo parlando di una scoperta dalle implicazioni potenzialmente straordinarie. Grazie a un esame oculistico, si potrebbe riuscire a diagnosticare il Parkinson con ben sette anni di anticipo rispetto alla manifestazione dei classici sintomi. Il che si traduce, per i pazienti, nell’opportunità senza precedenti di correggere lo stile di vita e adottare misure di prevenzione al fine di ritardare e magari attenuare l’impatto di una malattia così debilitante.
Per dirla con il dottor Siegfried Wagner dell’University College London Institute of Ophthalmology and Moorfields Eye Hospital, che ha partecipato alla ricerca sul Parkinson. “Rilevare i marker di una serie di malattie prima che emergano i sintomi significa che, in futuro, le persone potrebbero avere il tempo di apportare cambiamenti al proprio stile di vita per prevenire il verificarsi di certe condizioni”.
Certo, nonostante l’entusiasmo suscitato da questa scoperta, va ricordato che sono necessari ulteriori studi per confermare il nesso tra anatomia retinica e Parkinson. Prima di poter disporre di tecnologie diagnostiche mirate servono altre ricerche e validazioni. Ma la strada sembra tracciata e ci si può aspettare un impatto significativo sulla salute pubblica.
Già in passato, del resto, le scansioni oculari hanno permesso di rilevare segni di altre gravi malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer, la sclerosi multipla e la schizofrenia. Oltre che la predisposizione all’ipertensione, all’ictus e al diabete. “Continuo a essere stupito da ciò che possiamo scoprire attraverso le scansioni oculari”, ha concluso il dottor Wagner.
“Anche se non siamo ancora pronti a prevedere se un individuo svilupperà il Parkinson, speriamo che questo metodo possa presto diventare uno strumento di pre-screening per le persone a rischio di malattia”.