Smart working: non sono tutte rose e fiori. Col “lavoro agile” è nata anche una nuova forma di solitudine dei lavoratori.
Scopriamo come riconoscere la solitudine professionale e come superarla. Può essere pericolosa non solo per la salute mentale del dipendente ma anche per la produttività delle aziende.
I nuovi strumenti (come lo smart working) che hanno conosciuto una decisa accelerazione in tempo di pandemia hanno indubbiamente apportato dei vantaggi alla vita lavorativa. Per esempio il lavoro da remoto ha assicurato alle imprese quella continuità nella produzione a rischio di interruzione per via della crisi sanitaria causata dal Covid. Viste dal lato dei dipendenti, invece, queste innovazioni hanno dato la possibilità di trovare un equilibrio migliore tra le ore passate a lavorare in ufficio e le esigenze della vita privata.
Insomma, il mondo del lavoro è cambiato e sono cambiati anche i lavoratori. Che sempre più avvertono il bisogno di riacquistare il controllo sul proprio tempo e sulla propria vita. Spesso questa reazione viene associata al super lavoro richiesto dalle aziende, fatto di assoluta dedizione alla causa lavorativa che si traduce in uno stakanovismo caratterizzato da straordinari perenni, in una disponibilità 7 x 24. Con tutte le conseguenze del caso, a partire dallo stress da affaticamento lavorativo.
Da qui la nascita di un nuovo stile di vita per cercare di controbilanciare questo modello lavorativo con una visione più rispettosa della qualità della vita e dei bisogni personali dei dipendenti. Anche perché in una società sempre più “liquida” il luogo di lavoro tende a sostituirsi ai corpi sociali più tradizionali (istituzioni come la chiesa e la comunità). Di conseguenza il lavoro plasma a fondo personalità e identità del lavoratore. Il nuovo stile di vita riguarda in particolare quella che è stata definita la “Generazione YOLO” (You Only Live Once, cioè “si vive una volta sola”): i giovani under 25 ma anche le persone della fascia di età 26-41 anni.
Accanto a questi indubbi vantaggi, tuttavia, il lavoro da remoto presenta anche degli svantaggi. Con ricadute non soltanto sulla produttività delle aziende ma anche sul benessere personale dei lavoratori. È quanto emerge da un report sulla cosiddetta «solitudine professionale» da parte dell’Osservatorio della Content Factory della società di consulenza Bip. Secondo la ricerca, quasi 8 lavoratori su 10 hanno sofferto di questa forma di solitudine sperimentata nella loro carriera professionale.
Di cosa si tratta? La solitudine professionale viene definita come «la carenza relazionale percepita nel luogo di lavoro». Prima ancora che non avere nessuno intorno, la solitudine consiste nell’essere incapaci di comunicare quanto ci sembra importante e rilevante e nel non riuscire a valorizzare certi pensieri, giudicati incomprensibili dagli altri.
D’altro canto quello della solitudine appare un problema più di ampia portata, se pensiamo che in Italia il 4% della popolazione vive da sola. E la quota di solitari potrebbe crescere ancora. Per assestarsi, da qui al 2045, sul 6% della popolazione generale italiana. Il che significa, fatti i conti, circa 3,6 milioni di persone.
La solitudine professionale, spiegano gli autori dello studio, può svilupparsi in tre modi. C’è innanzitutto il caso di chi cova un senso di solitudine non legato al lavoro ma che può essere trasportato anche sul luogo di lavoro. Ma c’è anche la sensazione di solitudine innescata o esacerbata dalle caratteristiche stesse del proprio lavoro. In terzo luogo il lavoro può impattare negativamente sulla nostra vita (a causa dello stress, degli orari lavorativi prolungati, delle attività non motivanti o differenti da quelle per cui abbiamo motivazione e competenze) trascinandoci verso un senso di isolamento e solitudine.
Quando le persone si sentono sole sul lavoro, nei casi più estremi questa condizione professionale può tradursi in sintomi come ansia, depressione, burnout e riduzione della motivazione.
La ricerca sulla solitudine professionale si è basata su un campione di 355 lavoratori, variegato in termini di età anagrafica, seniority professionale, competenze e ruoli aziendali. A tutti è stato distribuito un questionario in forma digitale formato da otto domande a risposta multipla, da compilare rigorosamente in forma anonima.
I partecipanti sono stati divisi in cinque gruppi differenti in base all’età delle persone intervistate (18-24 anni; 25-34 anni; 35-49 anni; 50-64 anni; over 64 anni) in maniera da avere risultati più dettagliati. Dalle risposte è emerso che almeno il 77% dei lavoratori ha sperimentato una sensazione di solitudine sul luogo di lavoro.
A percepire con più intensità un senso di disagio sono risultati essere i lavoratori all’inizio della carriera professionale (39%) e quelli mid-level, cioè che hanno tra i 3 e i 5 anni di esperienza lavorativa (30%). Col progredire della carriera la percezione della solitudine professionale sembra invece diradarsi, anche se certo non scompare. Così passiamo dal 21% di chi si è sentito solo da lavoratore senior (ovvero con più di 5 anni di esperienza) e il 10% dei manager che hanno sperimentato la solitudine professionale.
Un divario che può essere colmato grazie al mentoring. Si tratta di una metodologia specifica di formazione molto utile che prevede una relazione uno a uno tra una persona con più esperienza professionale e una con minore esperienza.
Quanto alle cause della solitudine professionale, gli intervistati hanno indicato, nell’ordine, il lavoro da casa (40%), la relazione col team di lavoro (30%), la cultura aziendale (25%), la relazione col capo (22%), il ruolo aziendale (18%), aspetti della propria personalità (13%), aspetti legati alla nuova progettualità (6%), lavoro ibrido (5%), tipologia di contratto (5%).
La solitudine professionale impatta anche sulle imprese. In primo luogo aumentando il turnover delle persone, dando vita al fenomeno noto come Great Resignation, le «grandi dimissioni». Solo in Italia tra luglio e settembre 2021 in 524 mila hanno rassegnato le proprie dimissioni dal lavoro precedente. Un dato che si accompagna all’insoddisfazione registrata dal Censis sempre nel 2021, con 8 italiani su 10 convinti di meritare di più al lavoro. Una delusione che ha portato tanti a lasciare il lavoro anche senza avere il fatidico “piano B” nel cassetto.
Ma non è tutto: oltre alla perdita di lavoratori le aziende hanno perso in produttività. Una recente ricerca del Sole 24 Ore ha mostrato come i problemi legati al disagio psicologico abbiano fatto perdere alle imprese qualcosa come 42 giornate all’anno. Quasi un giorno di lavoro alla settimana. Non stupisce dunque apprendere che i problemi collegati alla salute mentale siano la prima causa di assenteismo dal lavoro per i 350 milioni di lavoratori di tutto il mondo sofferenti di depressione, 3 milioni dei quali in Italia (secondo i dati Istat del 2022).
Il report di Bip ricorda come i problemi legati alla depressione e allo stress psicologico comportino un calo di produttività tra il 50% e il 70%, anche per i lavoratori che non si assentano dal luogo di lavoro mettendosi in malattia. Una dimostrazione di quanto la salute mentale influenzi pesantemente le performance lavorative. In particolare se va a colpire le figure chiave dell’impresa, mettendo a rischio la prosecuzione stessa del business aziendale (business interruption).
La solitudine professionale impatta così pesantemente sulla produttività. Questo perché riduce il coinvolgimento del lavoratore nell’attività professionale, ovvero il suo livello di entusiasmo e motivazione per il lavoro. Solitudine infatti fa rima con isolamento e alienazione. Due sensazioni che portano a un deficit di attenzione a un ritiro relazionale dal luogo di lavoro, provocando anche una diminuzione delle prestazioni professionali.
Più una persona è sola nell’organizzazione del lavoro, minore sarà il suo impegno. Una situazione di solitudine professionale può generare un malessere che può portare a due fenomeni tipici del lavoro post-pandemia: il quite quitting e il tang ping.
Il quite quitting – termine coniato dall’ingegnere americano Zaid Khan in un video diventato virale su TikTok – sta per «abbandono silenzioso». Indica il disimpegno del lavoratore. Si tratta di un atteggiamento passivo e minimalista adottato da chi si limita a fare il minimo sindacale al lavoro. Sforzandosi di fare giusto lo stretto necessario. Quanto basta per non perdere il posto, ma non di più. Solo in Italia si stima che i «quiet quitter» comprendano oltre 2 milioni di professionisti.
Invece il secondo fenomeno, il tang ping, è un movimento nato in Cina nell’aprile 2021. Si tratta della risposta passiva alle richieste di super lavoro che hanno caratterizzato in Cina le generazioni precedenti alla Generazione Z. Il tang ping etimologicamente significa “stare sdraiati”. È una sorta di resistenza passiva che non si limita solo al luogo di lavoro ma si estende anche alla routine quotidiana.
Chi si sente parte del movimento tang ping cala di proposito le proprie aspettative lavorative e sociali per tirarsi fuori da una corsa al successo impazzita, dove gli sforzi per riuscire hanno ormai costi troppo alti rispetto ai benefici di un successo sempre più difficile da raggiungere.
Parliamo di fenomeni che rischiano di mettere in crisi la produttività e anche la stessa tenuta del business aziendale. Per affrontarli le organizzazioni hanno reagito facendo entrare temi come inclusione ed equità negli interventi dei CEO (con una frequenza del 658% dal 2018). Attualmente però soltanto il 40% delle persone ha avuto accesso a strumenti di wellbeing psicologico, fisico e finanziario.
La domanda è se è possibile uscire dal disagio della solitudine professionale. Appare cruciale, da questo punto di vista, la capacità da parte delle imprese di creare e mantenere il coinvolgimento dei lavoratori. Così come quella di rendere l’ambiente lavorativo accogliente e socialmente coinvolgente.
Per raggiungere questo obiettivo bisognerà creare il senso di qualcosa di simile, almeno in parte, a quella che lo scrittore Gustave Thibon chiamava una «comunità di destino». In sostanza è la percezione diffusa di avere un obiettivo aziendale comune. Un destino, inteso come insieme di eventi che toccano tutti, da compiere in maniera interdipendente, valorizzando le capacità dei professionisti di uno stesso team. E questo sia sul piano individuale che su quello di gruppo.
In un contesto liquido come quello del lavoro attuale, suggerisce lo studio di Bip, appare insufficiente parlare di equilibrio tra lavoro e vita privata (work-life balance). Meglio puntare invece sull’integrazione tra lavoro e vita privata (work-life integration). Giostrarsi come equilibristi alla ricerca di un punto di ottimo tra due piatti della bilancia (lavoro e vita privata) che di fatto sono destinati a non incontrarsi mai ha fatto il suo tempo. Il lavoratore-equilibrista appare un ideale ormai sorpassato, tipico di un mondo caratterizzato dalla giornata lavorativa fissa di otto ore. Un mondo che ormai appare alle spalle.
Meglio dunque parlare di integrazione tra lavoro e vita privata, da non considerare più come sfere separate ma come un tutt’uno per la persona del lavoratore. La nuova parola d’ordine diventa così «sinergia» tra tutte le aree della nostra vita: lavoro, casa, famiglia, comunità, benessere personale e salute.
In sostanza, si tratta di un cambio di paradigma nel mondo del lavoro. Un nuovo approccio che richiede un duplice sforzo di adattamento. Da parte delle aziende, che dovranno essere disposte a modificare la loro cultura e le loro politiche. Ma anche da parte dei dipendenti che avranno bisogno di maturare una maggiore consapevolezza della loro responsabilità nel raggiungimento degli scopi lavorativi.
Ma forse c’è anche dell’altro. Il 65% dei partecipanti alla ricerca di Bip pensa che la tecnologia abbia aumentato il grado di solitudine. Come ha fatto osservare Riccarda Zezza sul Sole 24 Ore (6 gennaio 2023), un’intera generazione di lavoratori è entrata nel mondo del lavoro in pandemia, attratta dalla possibilità di lavorare “fully remote”, totalmente da remoto.
Sempre sola e sempre da remoto, una generazione di giovani lavoratori è piombata nella tristezza. Perché? Il punto è che la comodità dello smart working ha un costo psicologico e relazionale. Lavorando a distanza è venuta a mancare infatti anche la possibilità di ricavare dal lavoro una dimensione identitaria e sociale.
In particolare si sente la mancanza della consuetudine a vedersi senza un perché, a riunirsi in un luogo comune senza uno scopo immediato. È in questo modo infatti che si creano le condizioni favorevoli al maturare del cameratismo e talvolta anche dell’amicizia. Ossia il brodo di coltura che si nutre di tutte quelle circostanze spontanee e casuali che creano e cementano i legami sociali.
Non bastano insomma le relazioni di lavoro strumentali alla realizzazione di un progetto lavorativo (che spesso cominciano e finiscono con quello stesso progetto). Servono anche altri gesti apparentemente trascurabili. Piccoli momenti di socialità come ad esempio salutarsi lungo le scale, scambiare quattro chiacchiere in pausa caffè o in mensa, incontrarsi sulla navetta.
Rituali quotidiani sul posto di lavoro che ci appaiono insignificanti e che invece sono importantissimi – oltre che insostituibili pure dalle tecnologie più sofisticate – per creare quel «senso di vicinanza noncurante» che alimenta il nostro essere animali sociali, propiziando opportunità e curiosità.
Senza questi momenti di condivisione non utilitaristica subentra una povertà relazionale ben espressa dai momenti iniziali delle riunioni da remoto, dove regnano di norma imbarazzati silenzi e si controllano le mail di lavoro fino all’ultimo secondo utile. Spicca il contrasto con le riunioni fisiche della vita reale, dove invece ci si dilunga in convenevoli su famiglia, passioni, interessi.
La lezione è chiara: il pc non basta a lavorare meglio e nemmeno a produrre di più. A quanto pare il vecchio sano contatto fisico tra esseri umani in carne e ossa ha ancora parecchie cose da insegnarci.
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