Una nuova legge Ue si aggiunge alle norme del Governo Meloni sugli aumenti in busta paga, ecco di cosa si tratta.
Buone notizie in arrivo per gli stipendi – comunque sempre troppo magri rispetto alla media europea – dei lavoratori italiani.
In media gli stipendi portati a casa ogni mese dai lavoratori italiani sono più bassi rispetto a quelli europei. In Italia uno stipendio medio oscilla tra i 22 mila e i 30 mila euro all’anno. Al mese fa 1.600-2.300 euro lordi. Cifre che, tradotte in stipendi netti, significano rispettivamente circa 1.300-1.900 euro versati mensilmente nelle tasche dei lavoratori.
Si tratta appunto di valori medi. Perché poi tutto dipende dal settore lavorativo e dal Ccnl di inquadramento della mansione. Non è un mistero che ci siano contratti e posizioni che fruttano al lavoratore una paga base ben più bassa dei 1.600 euro lordi al mese. Scendendo anche fino alla magra soglia dei 1.000 euro. Stipendi miseri ai quali, d’altra parte, fanno da contraltare le retribuzioni mensili ben superiori alla media, che magari giungono vicine ai 4-5 mila euro al mese.
Sempre parlando dell’ammontare degli stipendi spicca ancora una forte sperequazione tra le retribuzioni percepite dagli uomini e quelle corrisposte alle donne, anche a parità di mansioni. Nell‘Eurozona le donne guadagnano in media un 13% in meno rispetto ai colleghi uomini. Buste paga più leggere per le lavoratrici del Vecchio Continente dunque. Una nuova legge dell’Unione europea però potrebbe cambiare le carte in tavola.
L’Unione europea infatti, informa Il Sole 24 Ore, avrebbe reso nota una nuova direttiva per adeguare gli stipendi delle donne a quelli degli uomini. Si tratta di una direttiva che mira a dare più forza all’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Per farlo la Ue intende spingere sul tasto della trasparenza retributiva.
Cosa prevede dunque la nuova legge Ue sulla parità di stipendio tra uomo e donna? La nuova normativa impone l’obbligo di trasparenza ai datori di lavoro, che saranno costretti a indicare i criteri usati per stabilire la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione economica. In maniera uguale per tutti, senza discriminazioni basate sul sesso del lavoratore.
E cosa succederà al datore di lavoro che non dovesse rispettare l’obbligo di trasparenza e di parità di retribuzione tra uomo e donna? In questo caso rischia delle sanzioni. Inoltre, come stabilito dalla direttiva europea, se un dipendente si trova a essere vittima di discriminazioni subite per il solo fatto di essere maschio o femmina ha diritto a chiedere di essere risarcito. Un diritto di risarcimento per le opportunità perdute e per danno morale che abbraccia le retribuzioni arretrate, i bonus, i pagamenti in natura non corrisposti.
Significato e scopo della nuova direttiva Ue sono più che eloquenti. La Ue intende ribadire una volta di più la centralità del lavoro e della trasparenza in campo retributivo, alla luce dell’andamento degli stipendi e dei pagamenti, spesso penalizzante per le donne.
Una direttiva, quella europea, che rafforza quanto sancito di recente dal Tribunale di Milano sulla necessità di adeguare gli stipendi più bassi. Infatti una sentenza del tribunale ambrosiano ha riconosciuto che uno stipendio orario inferiore a 4 ore viola i princìpi della Costituzione.
I giudici milanesi hanno fatto riferimento al caso denunciato dalla dipendente di un istituto di vigilanza, che percepiva 3,96 euro all’ora. Una paga oraria troppo bassa per il Tribunale di Milano, che ha immediatamente disposto l’aumento dello stipendio per la lavoratrice. Questo malgrado la paga oraria fosse in linea con quanto previsto dal relativo Ccnl di inquadramento.
Per i giudici milanesi, anche se prevista dal contratto collettivo, una paga oraria così bassa violava il diritto costituzionalmente tutelato a ricevere uno stipendio adeguato. E questo anche se in Italia ancora non esiste un salario minimo, ovvero una somma oraria dovuta al lavoratore sotto la quale la retribuzione corrisposta dal datore di lavoro non può scendere.
La mancanza di un salario minimo non leva però il diritto, stabilito dalla Costituzione, a ricevere uno stipendio proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. In ogni caso la retribuzione deve essere sufficiente a garantire a sé e alla propria famiglia una vita libera e dignitosa. Nessun contratto, hanno sentenziato i giudici di Milano, può mai derogare da questo principio.
In quest’ottica – garantire stipendi più elevati ai lavoratori, soprattutto in un periodo di crisi economica – il governo guidato da Giorgia Meloni ha preso la decisione di aumentare il taglio del cuneo fiscale con la legge di Bilancio 2023. Un taglio ulteriormente innalzato – per ora solo alla fine del 2023 – col Decreto Lavoro ufficialmente approvato lo scorso 1° maggio congiuntamente all’aumento della detassazione dei cosiddetti “fringe benefit” aziendali (ovvero buoni acquisti, buoni carburante o buoni spesa).
La sforbiciata al cuneo fiscale in vigore da inizio 2023 consiste in un taglio del 3% per i redditi fino a 25 mila euro e del 2% per redditi compresi tra 25 mila e 35 mila euro. Più dettagliatamente, il cuneo fiscale da gennaio di quest’anno è tagliato del 3% per gli stipendi entro i 1.923 euro e del 2% per quelli entro i 2.692 euro lordi. Per gli stipendi superiori a questa soglia, dunque quelli superiori ai 2.692 euro, non sono previsti aumenti a causa del taglio del cuneo fiscale.
Il Decreto Lavoro ha innalzato ancora lo “sconto”, portando il taglio del cuneo fiscale al 7% per redditi fino a 25 mila euro e al 6% per quelli fino a 35 mila euro. Il nuovo taglio per far aumentare ancora gli stipendi troverà applicazione dal 1° luglio al 31 dicembre 2023 (ad esclusione però della tredicesima mensilità, sulla quale non verrà calcolato).
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